Tortura, si allunga l’iter al Senato ma i due emendamenti presentati non sciolgono i dubbi se sia una norma contro la tortura o una regolamentazione dei casi in cui è legale
Due emendamenti, dei relatori Nico D’Ascola (Alternativa Popolare – Centristi per l’Europa) e Enrico Buemi (Psi), al ddl tortura all’esame del Senato. Ed è ancora rinvio. Il primo prevede che il reato di tortura sia attuato con una pluralità di condotte ovvero trattamenti disumani o degradanti. Il secondo, esclude la configurabilità del reato in caso di uso legittimo della forza da parte delle forze dell’ordine a seguito di un ordine impartito. Sul piano procedurale, in aula sarà necessario quindi fornire tempo ulteriore per i subemendamenti ed è probabile che si vada ad un rinvio. Due codicilli insidiosi, definiti “di mediazione” che confermano i timori che la legge contro la tortura si tramuti in una sorta di regolamentazione delle condotte di tortura in auge tra i pubblici ufficiali.
Per esempio: con un testo così sarebbe stato possibile perseguire per il reato di tortura i poliziotti, i carabinieri, le guardie penitenziarie e i medici protagonisti delle violenze inumane a Bolzaneto nel 20o1? Probabilmente no così come sarebbe stato difficilissimo ottenere un’incriminazione ad hoc per le violenze subite da Stefano Cucchi.
Un esito prevedibile visto che la fine della latitanza dei governi italiani rispetto alla ratifica della convenzione delle Nazioni unite del 1988, ha coinciso con una scrittura del testo drogata dalle pretese delle lobby delle “forze dell’ordine” allergiche a qualsiasi limitazione alla licenza di abusi. E con il parlamento meno garantista della storia repubblicana di per sé non certo senza macchia. Quasi tutte le audizioni sono state dedicate ai sindacatoni e sindacatini di polizia, gli stessi che rifiutano misure semi palliative come quella di un codice alfanumerico che consenta a un magistrato di identificare un operatore che, travisato, commetta un reato in ordine pubblico. Gli stessi che dedicano manifestazioni e tributi ai loro colleghi condannati in via definitiva per delitti come l’omicidio Aldrovandi. Tra i ritornelli più ascoltati e meno credibili quello che una legge contro la tortura spunterebbe le unghie a chi lotta contro il jihadismo.
Il delitto di tortura non è definito come reato proprio, attribuibile al pubblico ufficiale e a chi eserciti un pubblico servizio. Dunque non è considerato, come dovrebbe essere, l’esito di un abuso di potere a opera di chi, titolare del monopolio legittimo della forza e della potestà legale di custodire altri, attui comportamenti illegali destinati a produrre dolore fisico o mentale a chi gli è affidato. Una simile impostazione, come ha spiegato più volte Luigi Manconi, non nasce dalla preconcetta ostilità o dal pregiudiziale sospetto verso le forze di polizia, ma ha l’esclusivo scopo di distinguere il reato di tortura da altre azioni violente, messe in atto tra privati, già previste e sanzionate dai nostri codici. Il testo discusso in Parlamento tratta la tortura come reato comune, prevedendo per chi la pratichi, a partire dalla condizione di pubblico ufficiale, semplicemente un’ipotesi aggravata.
Meglio di niente o meglio niente? Gli addetti ai lavori si lambiccano il cervello di fronte a questo dilemma. L’unico antidoto sarebbe un ampio movimento di massa contro la tortura e la malapolizia.
«Prendiamo atto che l’esame della proposta di introduzione del reato di tortura è stato rinviato. Speriamo che questo dia modo di migliorare il testo in discussione, rendendolo il più vicino possibile a quello dell’art,1 della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura». Lo dichiarano Antonio Marchesi e Patrizio Gonnella, rispettivamente presidenti di Amnesty International Italia e Antigone. «Speriamo altresì che questo rinvio sia davvero breve e non faccia venire meno il senso di urgenza che il tema richiede, visto che il nostro paese aspetta da quasi trent’anni l’introduzione di norme che consentano di punire in modo adeguato quella che la comunità internazionale intera considera una delle più gravi violazioni dei diritti umani» concludono.
L’Aula di Palazzo Madama ha deciso di rinviare l’esame del disegno di legge sulla tortura. Scadenza fissata per eventuali subemendamenti le 19 di giovedì 11 maggio, così si è deciso di far slittare il provvedimento alla prossima settimana. Ma se le modifiche di Buemi e Nico D’Ascola dovessero venire accolte magari la prossima settimana quando il ddl potrebbe tornare all’attenzione dell’Assemblea, il provvedimento dovrebbe riandare per l’ennesima volta alla Camera prolungando ancora di settimane l’iter del progetto di legge approdato in Parlamento a inizio della legislatura per iniziativa di Luigi Manconi (Pd).
«Se i fatti di cui al primo comma – continua il testo dell’articolo 1 del disegno di legge sulla tortura come verrebbe riscritto dai due emendamenti dei relatori – sono commessi da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio, con abuso di poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio la pena è della reclusione da 5 a 12 anni». Il comma precedente, recita ancora il nuovo testo dell’articolo 1 del provvedimento, «non si applica nel caso di sofferenze risultanti unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti». E ancora: «Se dai fatti di cui al primo comma deriva una lesione personale le pene di cui ai commi precedenti sono aumentate; se ne deriva una lesione personale grave sono aumentate di un terzo e se ne deriva una lesione personale gravissima sono aumentate della metà. Se dai fatti di cui al primo comma deriva la morte quale conseguenza non voluta la pena è della reclusione di anni 30. Se il colpevole cagiona volontariamente la morte, la pena è l’ergastolo».
Checchino Antonini
da Popoff