Tortura, quell’orrore quotidiano. Ma l’Italia ancora non riconosce il reato
Parlare di tortura non è facile. L’orrore che suscita crea in genere uno sdegno unanime di cui però è meglio diffidare poichè spesso cela solo ipocrisia. Pensiamo al fatto che metà della popolazione mondiale, cioè circa tre miliardi e mezzo di persone, vive in Paesi che praticano la tortura. I paradossi non finiscono qui: nelle sua carta dei diritti fondamentali l’Europa afferma che «nessuno può essere sottoposto a tortura, né a pene o trattamenti inumani o degradanti». Per questo accoglie e fornisce riparo a persone fuggite da violenze e torture. Eppure il vecchio continente è stato al tempo stesso il laboratorio della tortura contemporanea, quella applicata e diffusa dopo la seconda guerra mondiale. La storia è abbastanza nota e nasce in Francia, anzi in Indocina, dove le truppe coloniali francesi applicarono queste tecniche contro i guerriglieri comunisti. La tortura era un corollario di quella che gli stati maggiori francesi definivano «dottrina della guerra rivoluzionaria». La definizione verrà poi corretta dagli statunitensi. La counterinsurgency americana altro non è infatti che la rielaborazione delle tesi che i generali francesi avevano ulteriormente perfezionato in Algeria. Alla base di tutto c’è un manuale scritto dal generale Paul Aussaresses, il macellaio di Algeri. Il suo testo segue un percorso ben preciso, traversa l’Oceano e finisce a Fort Bragg, nella famigerata scuola delle Americhe che forma gli ufficiali dei corpi antiguerriglia Usa e tanti quadri delle dittature sudamericane. L’abecedario del bravo torturatore, tradotto e riversato nei manuali dell’esercito statunitense, ritorna in Europa attraverso la Nato e forma tutte le polizie d’Occidente. Metodi come l’annegamento simulato (conosciuto a Guantanamo come waterboarding) o l’uso degli elettrodi sui genitali verranno diffusamente impiegati in Italia anche da Ucigos e Nocs nel biennio 1982-83 contro i militanti della lotta armata. Non deve stupire dunque se l’Italia ancora oggi non riconosce il reato di tortura nel proprio codice penale e se queste pratiche sono riemerse per governare l’ordine pubblico nella caserma di Bolzaneto nel 2001. Domani verrà celebrata la giornata internazionale contro la tortura. Diverse iniziative sono state promosse per sensibilizzare l’opinione pubblica attorno alla questione: dalla denuncia dell’ergastolo ostativo che condanna alla pena capitale fino alla morte la gran parte degli attuali 1500 ergastolani italiani, all’occupazione organizzata dal Cir di alcune piazze di Roma con statue umane raffiguranti le vittime di Abu Ghraib. Lunedi invece andranno in scena al teatro Ambra Jovineli un gruppo di 12 rifugiati reduci da torture pesanti. Si tratta di un «laboratorio riabilitativo», ci spiega Massimo Germani, psichiatra e psicanalista, direttore del cento per le patologie post-traumatiche da stress presso l’ospedale san Giovanni di Roma. Coordinatore nazionale del Nirast, una rete nata nel 2007 e che raccoglie 10 centri ospedalieri universitari diffusi nel territorio e specializzati per i richiedenti asilo che hanno ricevuto torture e traumi estremi a cui vengono fornite cure specialistiche organiche e psicoterapeutiche. Si tratta di centri all’avanguardia che intervengono sulle conseguenze dei traumi di natura interpersonale. Quando abusi e violenze avvengono in luoghi chiusi, come carcere e famiglia o altre condizioni costrittive, ed hanno natura continuativa e ripetuta, danno luogo a traumi estremi, «non solo nell’immediato», nella carne, sottolinea il dottor Germani, ma «per la gravità durature nel tempo delle conseguenze a livello della psiche. Subentra una profonda disfunzione di quella che chiamiamo la psiche di base: come la memoria, l’identità personale». Il vissuto postraumatico dà luogo a «episodi dissociativi della personalità, come passare davanti allo specchio e non riconoscersi, oppure a spaesamenti, depersonalizzazione e derealizzazione». La persona – prosegue sempre Germani – è una specie di fantasma, «una parte del suo essere è dissociato dall’altro. C’è una dimensione che vive un quotidiano apparentemente normale, mentre l’altra resta inglobata nell’esperienza traumatica». La tortura incrina le fondamenta della persona, è una umiliazione estrema, sgretola l’io, fa venir meno la fiducia in sé e nell’altro. Per questo «i percorsi di riabilitazione psicosociale puntano alla riattivazione del gruppo per ritrovare la fiducia negli altri e in se stessi. Più della parola, che può riattivare il trauma, è utile la relazione». In un report appena uscito si apprende che oltre 3000 richiedenti asilo hanno subito forme di tortura grave o abusi, il 25% donne e il 75 uomini, in prevalenza Eritrei, Afgani, Kurdi sotto regime Turco, e poi Centroafricani, del Congo, della Costa d’Avorio. Parecchi quelli che arrivano dalla Libia e che passando attraverso il deserto vanno incontro durante il viaggio ad altri abusi e torture, specie le donne, trattenute e sottoposte a pedaggi sessuali, stupri sistematici. Non finisce qui, perché poi c’è la traversata del Mediterraneo, con altre tragedie, naufragi. Veri e propri viaggi del massacro e della morte. Chi riesce a scamparla porta con sé la memoria di chi è annegato, del bimbo finito in mare.
Paolo Persichetti da Liberazione
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