Tra Maroni e la ‘ndrangheta? L’imbarazzo della scelta
- febbraio 01, 2010
- in emergenza, migranti, riflessioni
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Con arroganza sabauda, il ministro Maroni e la banda Berlusconi sono passati da Reggio. Non hanno speso né un secondo né una parola su questioni serie come la mancanza di reddito, la devastazione ambientale di questa terra, le tante possibili “Rosarno” di Calabria. Maroni e la ‘ndrangheta hanno tanto in comune. Entrambi infatti si alimentano della mancata soluzione di problematiche storiche come l’assenza di prospettive, diritti, servizi ed istruzione. Lui, l’antimafia e la cosiddetta società civile sostengono di voler combattere la loro infinita crociata contro la criminalità. È un’apparente missione salvifica che finisce invero per proteggere gli interessi parassitari della “prenditoria” calabrese e della locale classe politica!
Una persona che non abiti i nostri luoghi, se volesse comprendere la reale natura del fenomeno mafioso, dovrebbe pensare al ruolo della Lega nel nord. Antica la prima, moderna la seconda, controllano i rispettivi territori ed agiscono al servizio delle borghesie agrarie e urbane. Soprattutto, promuovono secessione materiale! Ed è un fatto imbarazzante da accettare, ma sia alla Lega sia alla mafia aderiscono pure tanti giovani convinti così di ribellarsi al sistema.
Lo Stato di Cavour e Maroni conosce bene questa storia, e del mito della ‘ndrangheta ha fatto un utile spaventapasseri, un parafulmini. Distrae l’attenzione generale dai mali veri di Calabria. Serve solo ad alimentare un apparato d’ordine pubblico costosissimo! Qui si spendono soldi veri, espropriati alle intelligenze ed ai corpi meridionali. E dall’inizio del 2010, c’è una novità. Agitando questo mito, lo Stato sta deportando migliaia di migranti regolari. Così sono andati i fatti a Rosarno. Sì, i giovani neri hanno avuto un gran coraggio nel ribellarsi. Un minuto dopo, però, quando si sono resi conto di quanto fosse esteso ed innervato il nemico che avevano davanti, hanno giustamente preferito la fuga pur di salvare la pelle. Non si sono trovati di fronte picciotti con la lupara in mano, bensì professionisti, commercianti, imprenditori. Insomma, gente “normale” che pur di difendere i propri affari plurisecolari sarebbe capace di commettere un genocidio. La ‘ndrangheta c’era pure, ma in un secondo momento. E c’erano anche cacciatori di farfalle, collezionisti di francobolli e appassionati di auto d’epoca! Le ‘ndrine non hanno pilotato gli eventi. Non avrebbero avuto alcun interesse a richiamare in casa propria orde di giornalisti, sbirri e magistrati. Quella notte, in un attimo, i giovani neri hanno capito ciò che noialtri nati quaggiù sappiamo sin dall’infanzia: la mafia è tutto e niente. Il mafioso è anzitutto l’insospettabile signore della porta accanto. Che non imbraccia la lupara, non è affiliato, non riscuote tangenti, non vende droga, non ha mai commesso reati. Però mafioso rimane. E non è un problema solo calabrese. Le metropoli del nord sono piene di settentrionalissimi cittadini privi di qualsiasi dignità e sensibilità per il bene comune, impegnati a curare gli “interessi di famiglia”, con ogni mezzo necessario.
Quaggiù certi fenomeni sono più evidenti. Provate ad entrare in un comunissimo ufficio pubblico per il disbrigo della più elementare delle pratiche burocratiche, senza che un Don vi abbia mandato. Provate a recarvi in ospedale senza la raccomandazione di un politico, un amico o una loggia massonica. Se non appartenete ancora alla ‘ndrangheta, sarà tale il vostro senso di impotenza, che correrete ad affiliarvi. La Calabria è piena di giornalisti che fanno carriera scrivendo al servizio di qualche politico, “alternativi” che consumano le droghe delle ‘ndrine e frequentano le loro discoteche, padri di famiglia col cappello in mano che pur di “sistemare” un figlio si mettono in fila davanti agli hotel dove si svolgono gli incontri con i candidati delle regionali. E poi ci sono postcomunisti e sedicenti Democratici che popolano i rispettivi partiti secondo logiche meschine, postfascisti che rovistano i quartieri infestati dalla mala a caccia di consensi e protezione, preti asserragliati nel confessionale, editori che succhiano il sangue di giovani aspiranti cronisti.
Ah, sì, certo, poi tutti siamo “contro la mafia” …a parole. Ed è incredibile come la sinistra calabrese, ammesso che ne esista ancora una, si illuda di cambiare le cose limitandosi a parlarne, mandando comunicati ai giornali, oppure riponendo ogni fiducia nella paventata sostituzione dell’attuale classe dirigente con un’altra, magari più efficiente nel depredare beni comuni e risorse pubbliche.
In queste ore, chi sta in alto cerca di clonare i fatti di Rosarno, importandoli a Corigliano ed a Cosenza. È un’operazione che attrae consensi. Prossimo obiettivo, dunque, scacciare i rom! Ma non quelli storici, giunti qui nel ‘900, che a modo loro si sono già ribellati in passato, scegliendo in gran parte di diventare essi stessi ‘ndranghetisti. Si sono fatti battezzare dalle ‘ndrine pur di sfuggire ad un futuro di pidocchi, manovalanza criminale, topi ed emarginazione.
I prossimi pogrom allora sono stati programmati contro le recenti comunità di rom rumeni giunte in Calabria dopo l’allargamento dell’Unione Europea. Sono quelli che lavorano nei poderi della Sibaritide. Di solito vengono prima catturati dalla digos mentre all’alba vanno a lavorare, poi portati nei lager di Crotone e Lamezia con l’accusa di essere clandestini. La polizia ovviamente si guarda bene dal controllare i padroncini per i quali lavorano in cambio di una paga inferiore alle cifre rosarnesi. La stessa sorte toccata ai migranti scacciati da Corigliano aspetta adesso i circa 400 rom abitanti nel villaggio invisibile sul fiume Crati, a Cosenza. Per loro nessun vescovo invocherà mai il vangelo. Il sindaco Perugini, la procura, la prefettura e il presidente della provincia Oliverio hanno già contattato le ruspe per abbattere le baracche e sgomberare il campo. Entro l’inizio di marzo procederanno. E con la scusa che non sanno dove metterli, solleveranno nuove paure. Insorgeranno gli abitanti dei comuni in cui annunceranno di volerli trasferire. Alla fine gli zingari saranno deportati. Perché nella testa della gente, i rom rimangono mali privati, cioè il contrario di beni comuni. Gli zingari sono arnesi usa e getta per chi li sfrutta, chi se li porta a letto e per qualche missionario. Persino tra le persone che dicono d’essere “di sinistra” regna il pregiudizio: “i rom sono buoni solo ad accattonare. Fanno prostituire i figli”. Si dimentica quante volte tali frasi siano state proferite nei confronti dei migranti calabresi ed italiani del passato. E si fa finta di ignorare che le prime prostitute e gli accattoni siamo tutti noi che ogni giorno tiriamo fuori una lunga lingua fantozziana per elemosinare un salario e protezione. Ma si sa. Gli zingari sono sempre gli altri!
Claudio Dionesalvi da Carta
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