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Travaglio e Davigo, come distruggere la Costituzione e alimentare lo Stato penale

C’era una volta Oriana Fallaci. Lei era considerata la regina delle interviste. Ne fece decine, e le sue interviste erano spettacoli di lotta greco-romana. Prendeva l’intervistatore per il collo e non gliene passava una. Mise alle corde Gheddafi, ma anche Fellini e Bob Kennedy.

Sapete che anche i miti, col tempo, appassiscono. vengono superati. È successo così. Oggi il mito di Oriana è di gran lunga superato da quello di Marco Travaglio. Ieri, sul Fatto Quotidiano, Travaglio ha intervistato Piercamillo Davigo (ex Pm, ex capo dell’Anm, attualmente consigliere del Csm) e lo ha letteralmente messo alle strette: non gliene ha passata una. Lui – Davigo – si è difeso bene, certo, perché lo cose le sa. Ma ha traballato. Ogni domanda una mazzata. Ne ricopio qui le più importanti, anche per dare ai miei più giovani colleghi un’idea di come si fa un’intervista vera. Le ricopio integrali, senza cambiare una virgola e senza ridurle, per evitare che si perda la complessità della domanda. 1) «Lei che farebbe per bloccare i processi?» 2) «Non ci sono già?» 3) «Quindi che fare?» 4) «L’avvocatura non ci sente» 5) «Altre soluzioni?». E poi la sesta domanda che davvero è il colpo del kappaò: «Basta così?».

Sull’ultima domanda Davigo ha tremato davvero. E ha dovuto confessare che no, non bastava così. Che alle idee che aveva offerto fino a quel momento, rispondendo con sagacia agli affondi del giornalista, doveva aggiungerne un’ultima che può essere riassunta con queste poche parole: aboliamo il gratuito patrocinio per gli imputati, che tanto sono tutti evasori fiscali sennò non sarebbero imputati, e usiamo quei soldi per finanziare le parti civili.

Reso il giusto omaggio alla aggressività di Travaglio, forse un po’ troppo rude (specie in quel perfido «Non ci sono già?»), passiamo a esaminare le idee di Davigo.

La prima si fonda su questa affermazione singolare sulla prescrizione in Europa. Davigo, come già nei giorni scorsi più volte scritto da Travaglio (chissà chi dei due è il creatore di questa fake) sostiene che solo in Grecia esiste la prescrizione. Negli altri Paesi l’azione penale, una volta iniziata, non finisce più. Difficile discutere, su questo tema, perché l’affermazione non è discutibile: è assolutamente falsa. La prescrizione esiste in quasi tutti i Paesi europei (Germania Spagna, Francia, per citarne alcuni) e in molti di questi Paesi è molto più breve che da noi. Per esempio, in Francia i processi che prevedono pene sotto i 15 anni si prescrivono in tre anni (da noi fino a 15 anni, e in alcuni casi oltre) e l’eventuale interruzione della prescrizione non può comunque durare più di tre anni. A questo si aggiunge la prescrizione delle pene, che in Francia e in altri Paesi europei si conta dal momento del delitto, mentre da noi si conta dal momento della sentenza di terzo grado. Pensa un po’. Tanto che oggi i francesi dicono di non potere dare l’estradizione agli esuli italiani della lotta armata, perché da loro quei reati sono prescritti, da noi no. In Spagna e Germania le cose sono molto simili.

Davigo parte da qui per sostenere la sua idea di fondo. Che è questa. Per rendere più veloci i processi c’è un solo modo: ridurre i diritti della difesa. In varie forme. Abolizione della prescrizione, comunque dopo il primo grado, riduzione del diritto all’appello e introduzione della possibilità di reformatio in peius al secondo grado di giudizio (che vuol dire possibilità di aumentare le pene ricevute in primo grado, anche se l’appello è presentato dalla difesa), cancellazione o riduzione del gratuito patrocinio, obbligo per gli avvocati di pagare una multa per le impugnazioni che portano alla condanna. Davigo dice che in questo modo si sconsiglierebbe agli imputati e agli avvocati di ricorrere in appello, per evitare rischi. Travaglio purtroppo non chiede a Davigo se è giusto ridurre le possibilità di appello in presenza di dati molto allarmanti. Per esempio questo: il 40 per cento delle sentenze di appello rovescia o comunque attenua le sentenze di primo grado. L’appello non è una formalità o una perdita di tempo: è la possibilità di correggere un numero gigantesco di clamorosi errori giudiziari. Pensate che tra tutti coloro che finiscono indagati, la maggioranza risulta innocente: in Italia ogni 100 indagati, 75 sono scagionati nelle indagini preliminari o in processo; la percentuale è leggermente più bassa in caso di arresto: circa il 40 per cento degli arrestati risulta innocente, il che significa che probabilmente, oggi, nelle prigioni italiane ci sono solo 10 mila persone che vedranno la loro innocenza riconosciuta nei prossimi anni dopo aver trascorso in cella una piccola parte della propria vita.

Questi dati sono utili anche per giudicare la proposta di Davigo di rendere più dura la condanna in processo, e poi in appello, per spingere gran parte degli imputati ad accettare il patteggiamento. Dice Davigo: se rendiamo conveniente il patteggiamento ridurremo i processi e finalmente i tempi della giustizia si abbrevieranno. Il problema è che per patteggiare devo accettare una condanna e se sono innocente (cioè nel 75 per cento almeno dei casi, secondo i dati che vi abbiamo appena fornito)? Mi conviene lo stesso accettare una condanna perché – sapendo che gran parte dei diritti della difesa sono sospesi – so di rischiare di essere condannato anche da innocente? Questa è l’idea di fondo della giustizia? La giustizia – diciamo – è una macchina per condannare, non per giudicare. Tante più condanne ottiene nei tempi più brevi, tanto più è efficiente. E a questo principio devono ispirarsi le riforme. Del resto su questa idea, Davigo trova il plauso di quasi tutta la stampa. Quante volte avete letto questo titolo: “Assolti: la giustizia ha perso”. Ma perché ha perso? Perché sono stati assolti degli innocenti? E avrebbe vinto invece se fossero stati condannati? Bah.

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Per la Costituzione difendersi è un diritto inviolabile, ma ad alcuni non importa

Dunque la giustizia non funziona perché c’è troppa gente che fa appello. Non tutti lo dicono proprio apertamente (alcuni, i più disinibiti, sì): ma la teoria è appunto che la giustizia sarebbe affaticata per colpa dei troppi che impugnano le decisioni di cui sono insoddisfatti. E di qui il vagheggiamento, ma spesso proprio la proposta, di ridurre ulteriormente la possibilità che il cittadino chieda la riforma di un provvedimento ritenuto ingiusto.

È pur vero che i processi sono tanti (ma sono tanti anche perché c’è una selva di leggi che incriminano tutto), ed è vero che gestirli efficacemente è difficile. Ma dietro lo schermo tecnico di queste rappresentazioni lavora oscuramente una concezione speciale e inconfessabilmente incivile della giustizia, e cioè l’idea che la difesa non costituisca un diritto da proteggere ma una specie di riprovevole insubordinazione che bisogna reprimere: l’atto di rivolta compiuto da chi osa non piegare la testa davanti alla celebrazione di un rito che si pretende impassibile. Chi chiede un secondo giudizio è dunque responsabile di una duplice colpa: quella di non accettare l’esito del processo, e quella di contribuire in tal modo ad aggravare il lavoro dei magistrati impedendogli di fare giustizia come si deve. Naturalmente, si spiega, con pregiudizio dei cittadini onesti, chiamati a pagare per l’intasamento provocato dai malvissuti che depositano ricorsi per conseguire impunità.

Il fatto che la Costituzione della Repubblica dica che la difesa è un diritto inviolabile importa abbastanza poco. Così come è trascurabile la precisazione che quel diritto è inviolabile “in ogni stato e grado del procedimento”. Eliminiamolo, il diritto di ricorrere, di fare appello; e pace, poi, se a quel punto la nostra legge suprema proteggerà un diritto ridotto a un simulacro, perché non ha più nessuna sede di esercizio. Hai il diritto di pregare, ma ti smantello le chiese.

La verità è che l’esistenza di quel diritto è assai mal sopportata, e quel che si suggerisce è che ad esercitarlo possa essere a tutto concedere l’innocente, così trascurando di considerare che innocenti, sempre per Costituzione, devono essere ritenuti tutti almeno sino alla decisione definitiva. Un impiccio insopportabile, per alcuni, e infatti la loro pretesa è che diventi definitiva la decisione unica, un colpo e via.

Il sospetto che il diritto di impugnare una sentenza protegga un bene più vasto e importante, e cioè che lo Stato non sia sfrenato e incontrollabile nel suo potere di infliggere la violenza del processo e della pena, è completamente estraneo agli intendimenti dell’apostolato giudiziario. Si preoccupano della possibilità che il colpevole la faccia franca, e sono indifferenti davanti alla certezza che con la preclusione del diritto di difesa è l’ingiustizia di Stato a farla franca.

Iuri Maria Prado

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Travigo e Davaglio: balla per balla smascheriamo i leader del giustizialismo italiano

L’intervista pubblicata ieri sul Fatto Quotidiano a Piercamillo Davigo, firmata da Marco Travaglio (nel titolo abbiamo mischiato i due nomi per rendere più chiara l’unità di pensiero e di intenti tra i due protagonisti e leader indiscussi del giustizialismo italiano) contiene molte, molte inesattezze. Non certo per spirito polemico, ma solo per ristabilire un po’ la verità dei fatti, le elenchiamo.
1) La prima domanda di Travaglio riguarda, ovviamente, la prescrizione che “come la nostra c’è solo in Grecia”. Non è proprio così. In Francia, ad esempio, le norme sulla prescrizione sono simili alle nostre. Il termine di prescrizione decorre dalla data di commissione del fatto. Maturato il termine massimo previsto dalla legge, si estingue l’azione pubblica. Per alcuni reati, come nel caso di quelli commessi a mezzo stampa, la prescrizione è rapidissima: solo 3 mesi. In Germania, invece, la prescrizione è regolata dal codice penale. Esiste una distinzione tra “prescrizione della perseguibilità”, corrispondente alla prescrizione del reato italiana, e “prescrizione della esecuzione”, equivalente alla prescrizione della pena. L’ordinamento del Regno Unito non prevede l’estinzione del reato per prescrizione. Sono, però, previsti dei limiti temporali entro i quali possono essere perseguiti i reati; essi rispondono all’esigenza processuale di assicurare, entro un termine ragionevole, l’acquisizione di prove genuine e di garantire all’accusato un “giusto processo” che si svolga in un lasso di tempo circoscritto rispetto ai fatti che l’hanno determinato. Chi è assolto viene poi risarcito di tutte le spese legali sostenute.

2) In Italia “i processi durano troppo perché se ne fanno troppi. Il sistema accusatorio regge solo se il grosso dei casi non va a dibattimento”. Non è corretto. I processi sono tanti perché esiste l’obbligatorietà dell’azione penale e perché sono troppi i fatti sanzionati dalla legge penalmente (in aumento esponenziale da quando i grillini sono al governo). A ciò si deve poi aggiungere che tutto va a dibattimento perché il filtro del gip non funziona, essendo diventato il “copia ed incolla” delle decisioni del pm. Sono rarissime, infatti, le sentenze di non luogo a procedere pronunciate in udienza preliminare. Questa è una delle ragioni per le quali si chiede da tempo la separazione della carriere: Pm e Gip colleghi e vicini di stanza difficilmente sono autonomi. Così la funzione di vaglio e di selezione e di controllo del Gip scompare. Purtroppo l’Anm, in particolare quella che fu guidata da Davigo, è sempre statacontrarissima alla separazione delle carreire, che considera lesa maestà.

3) “I giudici italiani sono i più produttivi in Europa”. Affermazione fatta citando il rapporto della Commissione Europea per l’efficienza della giustizia (Cepej). Impreciso. In nessuna pagina del rapporto compare la voce “produttività”. E questo perché sono eterogenei i dati e gli ordinamenti dei 47 Stati oggetto dell’analisi. L’unico dato presente riguarda quello dei casi che sono stati definiti, senza però fare distinzione fra i tipi di provvedimenti attuati: sentenza, decreto penale, ecc.. Bisogna poi considerare che per la statistica del giudice, un processo per spaccio di una dose di stupefacente equivale al processo per il crac Parmalat.

4) “In America per impugnare una sentenza il condannato deve avere il permesso del giudice che l’ha emessa”. Il confronto con gli Stati Uniti non è ipotizzabile. Negli Usa i giudici, come i pm, sono eletti, non esiste il concorso in magistratura, non esiste l’obbligo di motivazione della sentenza. La decisione, chiamata verdetto, è di competenza della giuria popolare. Negli Stati Uniti l’imputato può contestare uno per uno i giurati, sostenere che hanno pregiudizi, ottenerne la sostituzione. Per dire: negli Stati Uniti delle magistrate di sinistra mai e poi mai avrebbero potuto giudicare Silvio Berlusconi. Negli Stati Uniti una sentenza di assoluzione in primo grado è definitva. negli Stati uniti la giuria popolare deve raggiungere l’unanimità per condannare, un solo giurato indissenso blocca la condanna.

5) “In Francia non esiste il divieto di “reformatio in peius” che da noi incentiverebbe gli appelli. Vero, ma in Francia il pm è sottoposto alle direttive del governo che sul punto emana ogni anno le “Istruzioni generali”, cioè le priorità sui reati da perseguire. Ed il procuratore generale ogni anno riferisce al governo sulla loro osservanza. Lo scopo è garantire uniformità dell’azione penale su tutto il territorio nazionale. Non esiste in Francia, come in Italia, la possibilità per il pm di fare ciò che vuole.

6) E’ “prassi insensata” che la sentenza debba essere emessa solo dal giudice che ha acquisito le prove. La “prassi insensata”, già duramente colpita dalla Cassazione, è contemplata nel codice accusatorio vigente dal 1989 il quale prevede che la prova si formi in dibattimento davanti ad un giudice, terzo ed imparziale. Se si elimina tale principio, tanto vale che gli elementi di prova acquisiti dal pm e dalla polizia diventino direttamente prova nel dibattimento. E tornare al sistema inquisitorio con il giudice istruttore.

Ps: Varrebbe la pena di ricordare a Davigo che il Csm – di cui fa parte – votò a dicembre del 2018 un parere secondo il quale “l’eventuale allungamento della durata dei processi avrebbe come conseguenza quella di compromettere il principio stabilito dell’art. 111 Cost.”, rispetto al quale l’Italia ha già subito condanne dalla CEDU e “darebbe luogo ad una potenziale lesione del diritto di difesa dell’imputato garantito dall’art. 24 Cost”.

Giovanni Altoprati

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articoli tratti da il riformista.it