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Trent’anni dopo Rodney King. Perché negli Stati Uniti la violenza della polizia è endemica

Dal pestaggio di Rodney King all’uccisione di George Floyd, le vittime della brutalità delle forze dell’ordine statunitensi sono innumerevoli. Perché ciò accade? Un’analisi dei fattori che alimentano la cultura di violenza che pervade la polizia americana.

di Elisabetta Grande

Trent’anni fa, il 29 aprile del 1992, la rabbia per una decisione sentita come profondamente ingiusta, nonché come frutto del razzismo imperante nella società, dava vita a una delle proteste di strada più eclatanti che la storia statunitense ricordi. Circa un anno prima, il 3 marzo del 1991, un giovane tassista nero di nome Rodney King, dopo un inseguimento in macchina da parte della polizia, veniva fermato e – sotto la direzione di un quarto poliziotto – picchiato selvaggiamente da tre agenti del dipartimento di polizia di Los Angeles. Da un appartamento poco lontano un videoamatore riprendeva la scena e qualche giorno dopo consegnava il filmato alla televisione locale. Era la prima volta che la violenza della polizia veniva ripresa e poi diffusa via etere.

Ciò provocò una forte reazione di sdegno in tutta la nazione, che sfociò in una vera e propria rivolta quando – il 29 aprile dell’anno successivo – una giuria, caratterizzata dal non includere neppure un nero fra i suoi componenti, assolse i poliziotti accusati di aver usato una forza eccessiva nei confronti di Rodney King. La rabbia della popolazione nera diede vita a uno scontro di piazza che durò 7 giorni e 7 notti ed ebbe conseguenze devastanti: 64 persone morirono, 2.383 furono ferite, 12.000 furono arrestate e i danni alle proprietà private ammontarono a più di un miliardo di dollari. La rivolta ebbe, tuttavia, anche il positivo effetto di innescare – in un sistema che singolarmente ammette doppi processi sugli stessi fatti nei confronti delle stesse persone, purché effettuati a livelli giurisdizionali, federale o statali, diversi – l’avvio di un procedimento penale federale contro i quattro poliziotti assolti in California. Un anno dopo, due di essi furono infine condannati, sia pure alla sanzione di 30 mesi di carcere, da molti ritenuta eccessivamente lieve ed effettivamente notevolmente ridotta in sede di commisurazione della pena dall’operare di particolari attenuanti riconosciute dal giudice. Era il segnale che le cose assai difficilmente sarebbero cambiate.

La videoregistrazione del pestaggio di Los Angeles aveva portato tanti a credere che l’inconfutabile prova dell’uso di una violenza razzista e ingiustificata da parte della polizia statunitense che ne era derivata avrebbe necessariamente innescato, insieme alla stigmatizzazione sociale dei metodi brutali utilizzati, un cambiamento radicale nel comportamento degli agenti. Quella convinzione però si rivelò ben presto errata, ché anzi – e nonostante le frequenti registrazioni filmate degli abusi perpetrati – non solo la brutalità poliziesca da allora non si è mai arrestata, ma al contrario da “meri” spietati pestaggi è passata vieppiù ad assumere la forma di veri e propri omicidi.

A quasi trent’anni di distanza dall’aggressione degli agenti del dipartimento di polizia di Los Angeles ai danni di Rodney King, la morte di George Floyd per mano della polizia di Minneapolis non è, infatti, che uno dei tantissimi decessi da allora provocati dal comportamento eccessivamente violento delle forze dell’ordine statunitensi. Come allora, anche nel maggio del 2020, l’imponente sollevazione popolare seguita (questa volta per mesi interi) alla diffusione del filmato – che rendeva visibile al mondo intero l’assurda brutalità perpetrata contro un nero, adesso spintasi fino ad ucciderlo – doveva condurre alla condanna dei poliziotti responsabili. Oggi però, a differenza di allora, l’aspettativa per un vero cambio di rotta nell’atteggiamento della polizia passa attraverso la consapevolezza che non siano più sufficienti videofilmati o proteste di piazza, ma che occorra la sovversione di alcuni fattori, la cui combinazione genera e alimenta la cultura di violenza che pervade la polizia americana. Si tratta dell’intreccio fra un sistema giuridico che di regola garantisce l’impunità agli agenti che mettono in atto comportamenti eccessivamente violenti; una grande permissività in fatto di detenzione e porto d’armi per tutti i consociati; e – soprattutto – una scienza corrotta dal denaro di chi guadagna nell’addestrare la polizia alimentandone l’aggressività.

Dopo la vicenda di Rodney King, né la preoccupazione di essere videoregistrati né quella di essere condannati hanno, infatti, trattenuto gli agenti della polizia americana dal picchiare e fare un uso inutilmente fatale dei taser; dall’atterrare a faccia in giù i sospetti criminali, soffocandoli sotto il peso di un piede, di un ginocchio o perfino del proprio corpo senza che ci fosse ragione; o ancora dallo sparare e uccidere persone disarmate o che avrebbero potuto facilmente essere bloccate o arrestate diversamente. Negli Stati Uniti la cifra dei morti per mano della polizia è altissima, senza alcun paragone rispetto a quel che accade in Europa: si fa riferimento addirittura a più di mille persone ammazzate per anno. Fra gli uccisi dai poliziotti, poi, i neri hanno il privilegio di essere sovra rappresentati per più di tre volte rispetto ai bianchi e in linea generale i morti appartengono a categorie particolarmente disagiate della popolazione.

Gli esempi dell’irragionevole violenza poliziesca, opportunamente videofilmata e ciononostante costantemente ripetuta, sono quasi quotidiani. “I can’t breath”, gemeva il 25 maggio 2020 a Minneapolis George Floyd sotto il peso del ginocchio dell’agente Derek Chauvin, che pur tuttavia non mollava la presa uccidendolo. “I can’t breath”, avvisava due mesi prima a Los Angeles Edward Bronstein, schiacciato a faccia in giù sotto il peso di almeno 5 poliziotti che, avendolo fermato a un semaforo, gli volevano prelevare il sangue per capire se stava guidando in stato di ebrezza. Da sempre timoroso degli aghi, il trentottenne nero aveva opposto un’iniziale timida resistenza al prelievo e per tutta risposta aveva trovato la morte. “I can’t breath” pronunciava, il 17 luglio del 2014, per ben 11 volte Eric Garner, un uomo nero di 43 anni sospettato di vendere qualche sigaretta sfusa all’angolo di una strada di New York, prima si soffocare mentre – dopo avergli premuto il volto sul marciapiede – l’agente Pantaleo gli stringeva un braccio al collo. “I can’t breath” si lamentava nel maggio del 2017, prima di morire, il 41enne Joseph Perez intanto che due poliziotti a Fresno, California, dopo averlo ammanettato, lo schiacciavano a terra con una barella sul dorso, sulla quale uno di essi addirittura si sedeva. “I can’t breath” sospirava il 19 aprile 2021 – pur un anno dopo la morte di George Floyd e la successiva rivolta di strada – Mario Gonzalez, un giovane latino di 26 anni, quando, in un parco di Alameda, in California, tre poliziotti – chiamati a intervenire da chi aveva notato che Mario si aggirava tenendo uno strano comportamento – lo trattenevano a terra, faccia in giù, per cinque minuti, di cui più di due con un ginocchio sulla schiena, fino al suo decesso.

I casi di morti sparati dalla polizia in circostanze in cui il sospetto criminale è disarmato o una forza non letale avrebbe potuto agevolmente essere utilizzata per fermarlo, sono d’altronde innumerevoli. Ne sono recenti esempi la morte di Isaiah Brown, ragazzo nero di trentadue anni, ucciso in Virginia il 21 aprile del 2021 da un poliziotto che scambiava il suo cellulare per una pistola; o quella di Ma’Khia Bryant, ragazzina nera di 16 anni, ammazzata il giorno prima in Ohio da un poliziotto chiamato sulla scena di un litigio fra ragazze, il quale nel vedere Ma’Khia con un coltello in mano la freddava senza pensarci due volte con quattro colpi di pistola. Così come non si contano i casi di persone, anche già ammanettate o addirittura legate mani e piedi, contro cui vengono usati in maniera sconsiderata i taser, fino a procurarne la morte.

Perché dunque ciò accade? La polizia statunitense è forse più cattiva o indifferente alla vita altrui di quanto non lo sia, per esempio, quella europea? La ragione della notevole maggiore aggressività che caratterizza l’agire delle forze dell’ordine americane va ovviamente cercata altrove e, come si diceva, è in larga parte il risultato della concorrenza di alcuni fattori che convergono nel convincere gli agenti che il loro comportamento violento sia giusto e necessario. Depone senz’altro in questo senso l’impunità goduta dai poliziotti nella stragrande maggioranza dei casi di brutalità poliziesca, dovuta da un canto al fatto che chi effettua le indagini è spesso la polizia stessa, sia pure a volte non quella locale, bensì quella statale (come in Texas, che dispiega i suoi famosi Rangers nei casi in cui si debba investigare la morte avvenuta per mano di un agente dello stato mentre aveva in custodia il deceduto), che nutre ovvi pregiudizi a favore dei colleghi. L’assenza di una parte civile nel processo penale statunitense impedisce la raccolta di elementi di prova a carico alternativi o diversi, con il risultato che difficilmente l’accusa esercita l’azione penale, il grand jury rinvia a giudizio o la giuria condanna. D’altro canto, pronunce come Graham v. Connor – con la quale nel 1989 la Corte Suprema dichiarò che “la polizia è spesso costretta a decidere quanta forza è necessaria nella mera frazione di un secondo (split-second judgment), in circostanze che sono tese, incerte e in rapida evoluzione” – assicurano ancora oggi l’impunità a chi agisce con una violenza considerata ragionevole, non dall’uomo medio, bensì dal poliziotto medio. È sufficiente, insomma, che i colleghi dell’imputato dichiarino che, trovandosi nelle stesse condizioni, si sarebbero comportati nello stesso modo, perché la forza utilizzata non sia ritenuta eccessiva e l’agente sia scriminato. In un paese, poi, in cui il numero delle armi possedute dai civili supera di parecchio i suoi abitanti – i quali hanno il diritto costituzionalmente garantito di detenerle e in molti stati anche quello di portarle con sé – anche il minimo dubbio che chi si sta arrestando sia armato rappresenta per il poliziotto medio una valida ragione per sparargli e quindi – per quanto detto – per il sistema di mandare esente da responsabilità l’agente omicida.

Sono, tuttavia, in particolare le indicazioni e le istruzioni che esse ricevono durante la loro formazione a spingere le forze dell’ordine statunitensi a usare particolare violenza. Non soltanto il principio enunciato in Graham v. Connor sta alla base delle linee guida su cui gli agenti americani vengono regolarmente addestrati: ciò che crea negli stessi l’impressione che una reazione estrema sia sempre possibile, anzi doverosa, giacché – è questo che viene loro insegnato – in qualunque circostanza è sempre in gioco la sopravvivenza propria o altrui. A convincere gli agenti della bontà dei loro comportamenti aggressivi è però soprattutto la collusione fra le compagnie private che ne curano la formazione – come la Lexipol (una compagnia texana che si vanta di avere scritto manuali di linee di condotta per ben 6300 dipartimenti di polizia) – e il mondo degli esperti da esse assoldati per piegare la scienza a coprire la violenza poliziesca. Si tratta di un gruppo di professionisti, sui cui articoli e sulle cui lezioni le forze dell’ordine si preparano, che – contro ogni buon senso e serietà scientifica – dichiarano sicure le tecniche aggressive messe in atto dalla polizia, escludendone ogni nesso causale con le morti che ne conseguono. Chiamati dietro lauti compensi a testimoniare a favore dei poliziotti nei processi civili intentati dalle famiglie delle vittime delle loro violenze e ascoltati da chi effettua le connesse indagini per esercitare un’eventuale azione penale, gli esperti assicurano alla polizia un completo esonero da responsabilità sul piano giuridico e rassicurano al contempo gli agenti circa la bontà e doverosità dei loro comportamenti violenti. Quando per esempio nel 2017 la polizia di Omaha, nel Nebraska, dopo avergli legato le mani dietro la schiena, aveva colpito il 28 enne Zachary Bear Heels per ben 12 volte con un taser, il Dottor Kroll (uno dei più attivi esperti al servizio della formazione degli agenti per Lexipol, nonché membro del consiglio di amministrazione di Axon, la compagnia che produce i taser) aveva fornito a processo la dirimente testimonianza che non ci potesse essere alcuna connessione fra la morte del giovane e l’uso del taser. Nel 2019, in un webinar condotto per conto di Lexipol, lo stesso esperto aveva d’altronde ripetuto per l’ennesima volta come “la scienza abbia completamente sconfessato” qualsiasi connessione fra la pressione al suolo, faccia in giù, di una persona e la sua morte. Si tratta di valutazioni analoghe a quelle effettuate da un altro dottore del gruppo, nel processo civile a carico di chi si era seduto sulla barella sistemata sul dorso di Joseph Perez, poco prima che l’uomo spirasse. “Occorre notare come sia stato possibile sentire il Signor Perez lamentarsi di non poter respirare dopo che la barella gli era stata posta sulla schiena… evidentemente l’aria usciva ed entrava dai suoi polmoni, lo faceva parlare ad alta voce e non ci sono prove che egli avesse avuto restrizioni ventilatorie. Facilmente il Signor Perez ha avuto un problema cardiaco e non polmonare”, aveva spiegato il Dottor Vilke, spesso chiamato a fornire la propria expertise a favore dei poliziotti nei processi che li riguardano. Per il gruppo dei medici al servizio delle compagnie private di formazione della polizia, la causa della morte nelle ipotesi di compressione al suolo sotto il peso di un ginocchio, di un piede, o addirittura di una barella su cui si siede un poliziotto è infatti da ricercarsi nella combinazione delle sostanze stupefacenti di cui l’arrestato faceva uso, della sua obesità, del suo cuore troppo grosso, di problemi psicologici pregressi, o di alcune mutazioni genetiche che lo predisponevano ad avere problemi di cuore, quando non addirittura in un effetto stressante misterioso causato dall’arresto: l’“arrest related death syndrome”! (Per approfondimenti su tutto ciò, si veda https://www.nytimes.com/2021/12/26/us/police-deaths-in-custody-blame.html)

Non stupisce, così, apprendere che l’8 aprile appena trascorso l’azione penale nei confronti di chi aveva atterrato e compresso al suolo con il suo ginocchio Mario Gonzalez sia stata definitivamente archiviata. Le indagini hanno, infatti, chiarito che la causa della morte del giovane latino non è stata l’asfissia, bensì l’anfetamina assunta prima del suo decesso, insieme allo stress determinato dall’arresto e ai pregressi problemi di salute di Mario, inclusi l’obesità e il cuore troppo grosso. Né par strano immaginare che gli agenti che lo avevano violentemente atterrato – e che dopo la sua morte avevano cercato in tutti i modi di rianimarlo – avessero agito in perfetta buona fede; così come convinto di agire nel migliore dei modi si era dichiarato l’agente che si era seduto sulla barella posta sul dorso di Joseph Perez. Durante i corsi di formazione, aveva detto il poliziotto, gli avevano insegnato che quel comportamento non avrebbe potuto in nessun caso provocarne la morte (cfr. ancora https://www.nytimes.com/2021/12/26/us/police-deaths-in-custody-blame.html) .

Generazioni di agenti delle forze dell’ordine si sono formate e continuano a formarsi sulla falsa scienza di esperti corrotti, al soldo di compagnie private che traggono profitto dal servizio di guida e istruzione che offrono ai dipartimenti di polizia. È per questo che una videoregistrazione dell’orrore della violenza poliziesca o una condanna ogni tanto, dopo una grande o grandissima manifestazione di piazza, non possono risolvere il problema della brutalità della polizia statunitense.

da micromega