Troppo spesso i diritti delle vittime di stragi causate dall’avidità, dall’ideologia del profitto, non vengono né riconosciuti, né – tantomeno – garantiti. Ne abbiamo parlato con Luciano Orio del “Comitato per la dignità e la salute nel lavoro” di Bassano del Grappa. Attivo anche nel Coordinamento lavoratori uniti del Vicentino (organismi che aderiscono, entrambi, alla Campagna per la manifestazione del 9 ottobre 2021 per il riconoscimento dei diritti delle vittime delle stragi causate da attività economiche finalizzate al profitto). Come ci ha spiegato fu la morte prematura di Claudio, a 54 anni dopo oltre 40 anni di lavoro, amico e vicino di casa, per mesotelioma pleurico da amianto, a determinare un processo di comprensione della vastità e drammaticità del problema della salute compromessa dalle attività lavorative. Così era cominciata, dalla denuncia pubblica e dalla causa intentata ai titolari dell’azienda per omicidio colposo. Già presente e attivo da anni nei movimenti antagonisti dell’Alto Vicentino (come al Centro Sociale “Stella Rossa” di Bassano), da allora Luciano ha proseguito nelle iniziative sia di controinformazione (assemblee, convegni, spettacoli teatrali), sia di mobilitazione (come nei presidi davanti ai tribunali) per far crescere la sensibilità pubblica locale in merito alle morti di lavoro. Una vita, la sua, spesa per i diritti sociali e ambientali delle classi subalterne.
Leggo dal vostro documento: “…l’avidità che trasforma le imprese in attività criminali…”. Quale potrebbe essere una soglia – come dire – “accettabile”, il limite consentito per evitare tali derive nefaste (in qualche modo insite, implicite nei rapporti di produzione attuali)?
Un limite – a mio avviso – non esiste. Il problema sta nei rapporti di forza tra lavoratori e imprenditori. In questo momento tali rapporti sono alquanto squilibrati a favore del padronato che ha un peso preponderante. Per cui il “limite” è venuto a spostarsi molto, troppo in avanti. Il profitto non ha limiti e la molla dell’avidità a sua volta produce criminalità. Avere maggiori utili da distribuire tra gli azionisti o i soci è preferibile all’ investire nella sicurezza, nella prevenzione.
Quando avvengono tali tragedie annunciate, utilizzare termini come “calamità” o “incidente” è una costante. Perché lo considerate arbitrario?
Perché l’equivoco è già nel termine stesso di “incidente”. La morte sul lavoro non è frutto del destino, non è mai una fatalità. Parlare di “incidenti” è fuorviante, serve solo a distogliere dalle vere responsabilità. Consideriamo il caso di Luana D’Orazio, morta perché le misure di sicurezza non erano inserite. O anche, per analogia, quanto è capitato qui da noi a Mariano Bianchin, schiacciato dalla pressa nel 2016 (il processo è ancora in corso nda). In genere i proprietari, i responsabili dicono di “non saperselo spiegare”. Ma poi andando a verificare il più delle volte si scopre che erano state tolte le misure di sicurezza. Nel caso di Mariano sarebbe stata rimossa la fotocellula che scattava bloccando la pressa quando l’operaio si avvicinava. Succede ovunque, per produrre di più, incamerare maggiori profitti. In proposito basterebbe rileggersi “Works” del vicentino Vitaliano Trevisan che riprende per esperienza diretta il tema delle presse e degli incidenti sul lavoro nel vicentino. Non si può parlare di “calamità”, così come è fuori luogo il termine (utilizzato altrettanto spesso) di “incuria”, perlomeno riduttivo rispetto alle vere responsabilità. E mi chiedo come possa un tribunale consentire che vengano pagate anticipatamente le parti civili (tramite le assicurazioni) prima del giusto processo per fare in modo che si ritirino. In pratica, le famiglie – che si trovano proiettate di colpo in una situazione difficile, drammatica – vengono prese per fame.
Stando così le cose, la maggioranza delle attività economiche attuali (sia nell’industria che nell’agricoltura) potrebbero risultare fuori regola – “fuorilegge” – per quanto riguarda i termini di sicurezza, prevenzione etc… Pensi sia possibile adeguarle, riconvertirle?
Riconvertirle dici? Ci vorrebbe ben altro. La pressione forte, potente della società civile e dei lavoratori per far sì che – per legge – i datori di lavori garantiscano la sicurezza nelle loro aziende. E- ovviamente – non solo sui posti di lavoro. Pensiamo per esempio a quanto accadde in Val di Stava nel 1985 dove, per il crollo dei bacini di decantazione – o meglio: della discarica – di una miniera, persero la vita centinaia di persone. Oppure a quello – eufemisticamente definito “incidente ferroviario” – che avvenne alla stazione di Viareggio nel giugno 2009 quando l’immane esplosione del gpl trasportato da un treno merci deragliato provocò una trentina di vittime. La Cassazione, dopo due gradi di giudizio che condannavano gli imputati, non ha riconosciuto l’aggravante dell’infortunio sul lavoro (ossia la violazione delle norme sulla sicurezza nel lavoro) facendo scattare la prescrizione. Una decisione che suscitò scalpore e indignazione, soprattutto tra i parenti delle vittime ovviamente. Conseguentemente il tragico evento veniva ridimensionato a “disastro ferroviario colposo” sia per l’ex ad di Fs (dal 2006 al 2014), Mauro Moretti che per Michele Mario Elia (Rfi). Moretti fu costretto a dimettersi, ma solo per passare a Finmeccanica (poi Leonardo) dal 2014 al 2017 (per qualcuno, in realtà si sarebbe trattato quasi di una promozione). E tutto questo nonostante l’enorme impegno, il coraggio dei parenti che da più di dieci anni mobilitano decine di migliaia di persone il 29 giugno.
Leggo sempre sul vostro documento che le vittime, sia i sopravvissuti, i superstiti che i parenti di chi è rimasto ucciso (dal Vajont a Stava, dalla scuola di Casalecchio di Reno alla Moby Prince e alla funivia del Cermis…), si sentono abbandonati dallo Stato.
In genere si tende a misconoscere che i sopravvissuti, i parenti delle vittime sostanzialmente chiedono giustizia. E norme adeguate per conseguirla, per ristabilire la verità. Invece vengono vissuti come un disturbo, si cerca di rappresentarli come vendicativi o – peggio – come persone in cerca di cospicui risarcimenti (“il cappio e i soldi”). Ma le cose non stanno così. Ripeto. Dietro alle stragi (da Longarone alla Montedison…) ritroviamo operante l’ideologia del profitto. Del resto talvolta lo dicono apertamente: “Il nostro scopo è fare profitto, non manutenzione”, come riportava Felice Casson nel suo “La fabbrica dei veleni. Storie e segreti di Porto Marghera”.* E’ la storia del protocollo – segreto – della Montedison sulle modalità del cloruro di vinile (CVM, quello dell’angiosarcoma, quello di Gabriele Bortolozzo, quello raccontato dal poeta operaio Ferruccio Brugnaro, il padre naturalmente). Per la cronaca. I dirigenti del Petrolkimiko (come lo chiamava Gianfranco Bettin) vennero prima assolti, poi condannati per omicidio colposo. Ma nel frattempo – anche in questo caso – il reato veniva prescritto. E i sopravvissuti ancora una volta abbandonati al loro dolore. Così com’è avvenuto per la Moby Prince. A volte poi la sensazione dell’abbandono è individuale, legata a circostanze particolari. Penso per esempio a una persona di Amatrice che ho conosciuto, Mario Sanna. Nonostante abbia perso il figlio, Filippo, nel crollo della casa non ha avuto alcuna forma di risarcimento in quanto era in affitto. Ora anche Mario sta lottando per i suoi diritti, per la giustizia.
Ovviamente, oltre alle stragi – come dire – spettacolari, ci sono anche quelle subdole che agiscono sui tempi lunghi (penso qui da noi alla Valle del Chiampo, alle concerie di Arzignano negli anni settanta). Come nel caso dell’amianto, del cromo esavalente di Tezze sul Brenta o del cloruro di vinile di Marghera. E in futuro non si può escludere che si debba fare i conti anche con la mortalità derivata dai Pfas…
Personalmente ho seguito da vicino – tra il 2007 e il 2012 come “Comitato per la Difesa della Salute nei luoghi di Lavoro e nel Territorio di Tezze sul Brenta e Bassano del Grappa – tutta la questione del cromo esavalente dell’azienda Galvanica PM, poi Tricom di Stroppari (frazione di Tezze). Uno scenario da brivido, tra la morte sospetta di molti operai e autentiche mutazioni della flora locale. Con responsabilità evidenti anche da parte dei politici (il direttore dell’azienda era anche sindaco del paese). Fin dagli anni settanta riversavano veleni industriali – fanghi della lavorazione – sia nel terreno che in una roggia. Sversamenti differiti nel tempo e a macchia di leopardo. Infatti già nel ’75 le famiglie venivano rifornite di acqua potabile con le autobotti. Poi ancora altri sversamenti nei primi anni ottanta e nel 2001. In una zona, sottolineo, di ricarica di falda. A conclusione, nel 2003, arrivò il fallimento dell’azienda. Abbiamo potuto verificare, sia dai racconti dei lavoratori che dai filmati dei tecnici ARPAV, come gli operai lavorassero sostanzialmente nella fanghiglia impregnata di cromo (oltre che di nickel, cadmio, piombo…). Nei filmati si vede chiaramente quando gli ispettori entrano nella fabbrica. Staccando una presa di corrente dal muro vengono via – letteralmente – anche le malte e tutto appare giallo, impregnato di cromo. I muri, le pareti così come il pavimento da cui i veleni erano penetrati in profondità (almeno per 30 metri) nel terreno. C’era una vasca con ben 28 (ventotto!) toppe, un autentico colabrodo che invece di venir almeno sostituita veniva periodicamente rattoppata alla meglio. Il problema è stato “risolto” – si fa per dire – con un sarcofago (in stile Chernobyl) di cemento di 25 metri di profondità e 140 metri di larghezza per isolare il terreno inquinato (area complessiva di 2800 metri quadri). Il costo previsto è di circa dieci milioni di euro che paga la Regione. Nel processo, svoltosi a Cittadella, i titolari sono stati riconosciuti colpevoli e condannati per avvelenamento ambientale. A questo punto ci eravamo chiesti: e le persone? Scoprendo che in realtà c’erano state altre denunce – in particolare da parte del figlio di un lavoratore deceduto per tumore polmonare – e che era stata avviata un’indagine in merito alle morti di una ventina di operai dell’azienda. Verificando tuttavia che nel frattempo tale inchiesta si era cercato di archiviarla. L’abbiamo fatta riesumare e ci siamo mobilitati (con manifestazioni, volantinaggi, presidi, ricorsi anche alla Corte europea…) contro l’insabbiamento, la prescrizione. Alla fine delle morti sospette ne sono state riconosciute solo tre o quattro (alcuni casi eliminati per prescrizione, altri perché i tumori non sarebbero stati compatibili con le sostanze utilizzate nel processo lavorativo…). Anche se da parte nostra rimaneva il sospetto di un possibile “conflitto di interessi” ossia che magari qualche perito fosse sul libro paga dell’azienda. Ottenendo comunque che venissero condannati anche se con pene irrisorie (vista la gravità della vicenda). Con il rito abbreviato: un anno e 4 mesi in appello, ridotto a un anno in Cassazione.
Istituzione della “Giornata nazionale in memoria delle vittime dei disastri ambientali e industriali” (9 ottobre). Perché come riconoscimento lo giudicate ancora “equivoco” (oltre che puramente simbolico)?
Il nostro obiettivo è quello di contrattualizzare la salute, il diritto alla salute nei luoghi di lavoro. Ossia inserire nei contratti delle modalità, delle garanzie sulla sicurezza dei lavoratori. Rivedere i protocolli, ricomporre una situazione – se vogliamo – analoga a quella degli anni settanta (pensiamo al lavoro di Giulio Maccacaro sulla salute in fabbrica, sui diritti del malato e contro la “medicina del capitale”…). La salute, va ribadito, non è una merce, la nocività non si monetizza. Quindi le belle dichiarazioni di principio (come quelle comunque importanti – per quanto finora disattese – della Costituzione) non sono sufficienti. Credo che – alla fin fine – più che di nodi giuridici, sia una questione di rapporti di forza. Una conduzione diversa della società, delle attività economiche deve partire dal basso, dai lavoratori, dalla società civile. Solo così potremo, io credo, ottenere e applicare realmente quelle norme che sulla carta dovrebbero essere già in vigore.
Vedo che per il 28 maggio 2021 avete in programma una conferenza stampa (in diretta Zoom). Ce ne puoi parlare?
Come ho detto, ci consideriamo rappresentanti della Società Civile che intendono lanciare una campagna di informazione unita ad una iniziativa pubblica popolare per il riconoscimento dei diritti delle vittime delle stragi causate da attività economiche finalizzate al profitto. Cosi come viene enunciato nell’appello che abbiamo stilato con la collaborazione di magistrati, avvocati e accademici**. Lo spirito che ci ha spinto ad iniziare questo percorso è il seguente:
-Manifestare il profondo disagio della società civile che vive sulla propria pelle la discrepanza tra giustizia e legge, una legge che nelle aule dei Tribunali sembra tutelare maggiormente gli imputati rispetto alle vittime, soprattutto quando gli imputati sono grandi imprese, sia pubbliche che private. Il disagio è tangibile da parte di chiunque si ritrovi a combattere per la giustizia dei propri cari vittime delle stragi. Chiunque sieda nelle aule dei tribunali dalla parte delle vittime spesso è costretto ad assistere ad una ricostruzione menzognera dei fatti che sfiora la beffa, che va contro ogni logica e buonsenso. All’inizio di questo percorso, le vittime credono fortemente nella legge, ma un po’ alla volta finiscono per sentirsi vittime anche dei processi, via via riconoscendo l’incapacità della legge di essere giusta e soprattutto uguale per tutti.
-Evitare che sentenze troppo “magnanime” nei confronti dei responsabili di questi gravi reati diano loro un senso di impunità che li convinca che per difendere il profitto, valga la pena reiterare il reato.
-Evitare che chi venga ritenuto colpevole di questo tipo di reati possa continuare a ricoprire cariche all’interno di imprese pubbliche.
-Colmare in qualche modo l’enorme squilibrio economico tra vittime e imputati di grandi imprese che ha permesso e permette a quest’ultimi di vincere ricorrendo anche a vari escamotage consentiti dalla legge, quali: l’eccessiva lunghezza dei processi, la prescrizione e la disparità nella possibilità da parte degli imputati eccellenti di avvalersi di una folta schiera di avvocati e consulenti (spesso in palese conflitto di interessi) contro la limitata disponibilità economica delle vittime.
Come pensate di alimentare, coltivare la consapevolezza di una più ampia “responsabilità sociale” tra le nuove generazioni?
Resto convinto del ruolo fondamentale della lotta di classe. Ti faccio un piccolo esempio proprio di questi giorni. Senza che l’avessimo programmato, dei giovani arabi (figli di immigrati, di seconda o terza generazione) ci hanno chiesto di aiutarli a organizzare una manifestazione per la Palestina. Anche se il terreno è un altro (quello dell’internazionalismo) lo interpreto come un sintomo positivo di questo germogliare della coscienza di classe, della consapevolezza sociale e politica tra i giovani e i giovanissimi. In sostanza, quello che sta avvenendo in Palestina ai loro occhi è un segnale rivelatore della società in cui vivono. Riconoscersi in una causa così nobile esprime la consapevolezza della necessità di lottare. Anche, per analogia, per il diritto alla salute.
Intervista a cura di Gianni Sartori
*nota 1
più o meno lo stesso concetto espresso a suo tempo in un’intervista da Silvio Ghisotti, proprietario dell’IPCA di Cirié (vedi le ammine aromatiche):
“Lei mi insegna, che nulla è più dannoso per un’industria che gettar via soldi inutilmente”.
**Nota 2: