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Tutte le anomalie dell’inchiesta su Mimmo Lucano

Uso indiscriminato delle intercettazioni, testimoni chiave che ritrattano, trascrizioni inesatte, sentenze ignorate: quello che non torna nel caso di Mimmo Lucano

“Ho speso la mia vita contro le mafie, mi sono schierato a fianco degli ultimi, degli immigrati. Oggi devo prendere atto che ho perso tutto”. Chiunque abbia conosciuto Domenico Lucano, detto Mimmo, l’ex sindaco di Riace noto in tutto il mondo per l’esperimento di accoglienza realizzato in Calabria, sa che il suo modo di parlare è scontroso e allo stesso tempo emotivo. Ma dopo la lettura della sentenza che lo ha condannato a tredici anni e due mesi di carcere, Lucano è apparso smarrito, in lacrime.

Si aspettava un’assoluzione o una pena molto più lieve, come avevano chiesto i suoi avvocati. Invece a quattro anni dall’inizio delle indagini e dopo due anni di processo è arrivata una condanna di primo grado per più di venti reati tra cui associazione per delinquere, abuso d’ufficio, truffa, concussione, peculato, turbativa d’asta, falsità ideologica. Con una decisione inaspettata e inusuale, il tribunale di Locri ha raddoppiato la pena chiesta dalla procura, che in sostanza accusava Lucano di essere a capo di un’associazione a delinquere finalizzata alla truffa aggravata e al peculato, cioè alla destinazione ad altro scopo dei fondi stanziati per l’accoglienza dei migranti.

“Una sentenza abnorme, che contrasta con quello che è stato accertato durante il processo, faremo appello, perché la riteniamo ingiusta”, ha commentato al telefono uno degli avvocati della difesa di Lucano, Andrea Daqua. “Il reato di associazione a delinquere era stato escluso anche dai testimoni chiave dell’accusa, come il colonnello della guardia di finanza Nicola Sportelli che ha coordinato l’inchiesta”, aggiunge Daqua. Con Lucano sono state condannate altre ventidue persone, che dovranno risarcire lo stato versando 750mila euro. Il procuratore di Locri Luigi D’Alessio, che aveva guidato l’indagine, in un’intervista con il quotidiano La Stampa ha definito Lucano “un bandito idealista da western”. E ha aggiunto che il processo si basa “su carte e fatture false difficilmente controvertibili, non su testimoni più o meno credibili”. Le motivazioni della sentenza saranno pubblicate fra tre mesi, tuttavia la durezza della pena e alcune anomalie del processo hanno suscitato molte critiche sia nell’opinione pubblica sia tra i giudici, aprendo una discussione all’interno della magistratura.

Il segretario generale di Magistratura democratica (Md), Stefano Musolino, ha commentato il caso dicendo: “Non possiamo valutare una sentenza senza prima conoscerne le motivazioni, ma possiamo interrogarci sulle ragioni per cui una sentenza susciti questo clamore. E abbiamo un dato oggettivo, da tutti verificabile: l’entità della pena, un elemento della decisione su cui ogni giudice esercita una discrezionalità che è anche figlia di una sensibilità valoriale. Una pena, quella inflitta a Lucano, che a queste latitudini è comminata per gravi reati di mafia”.

Anche per Livio Pepino, ex magistrato e componente del consiglio superiore della magistratura, la sentenza del tribunale di Locri non è tanto contro Lucano, quanto contro “il sistema Riace, trasformato da sistema di aiuto e accoglienza in organizzazione criminale”. Per Pepino c’è stato uno scivolamento dal piano amministrativo al piano penale: “Nell’organizzare l’accoglienza dei migranti a Riace, Lucano ha reagito ai ritardi e alle inadempienze dell’amministrazione con numerose e ripetute forzature amministrative. Lo ha fatto alla luce del sole e rivendicandolo in mille interventi e interviste. Ci sono dei reati? Io non credo, ma la cosa è possibile e non sarebbe uno scandalo accertarlo in un processo”.

Illeciti amministrativi

Anche il giurista Gianfranco Schiavone dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), che ha seguito i processi amministrativi contro il sistema di accoglienza nel piccolo paese calabrese, concorda: “C’è una sovrapposizione tra il piano degli illeciti amministrativi e quelli penali. A Riace c’era sicuramente, soprattutto negli ultimi anni, una situazione caotica dal punto di vista contabile, ma queste irregolarità sono state prese in esame dal tribunale amministrativo regionale (Tar) e dal consiglio di stato. Entrambi hanno dato ragione a Lucano”. Nonostante la situazione amministrativa critica, il Tar ha scritto che Riace stava svolgendo un ruolo positivo con “riconosciuti e innegabili meriti che hanno un ruolo decisivo nel ritenere superate (e non penalizzanti) le criticità”.

Secondo Schiavone, non è giustificato il fatto che la pena inflitta a Lucano sia simile a quella di Salvatore Buzzi e Massimo Carminati, i due protagonisti dello scandalo Mafia capitale, che nel 2014 ha travolto il sistema di accoglienza romano. Nel caso di Buzzi e Carminati, infatti, lo scopo di lucro era innegabile. “Quale sarebbe stata la finalità criminale di Lucano e degli altri imputati che non si sono intascati un centesimo?”, chiede Schiavone. La procura stessa ha escluso che qualcuno si sia arricchito, ma nella requisitoria ha contestato “un guadagno politico”, nonostante Lucano abbia rifiutato di candidarsi sia alle elezioni politiche del 2018 sia a quelle europee del 2019.

Come hanno fatto notare diversi analisti, la severità della pena non è l’unica anomalia del processo contro l’ex sindaco di Riace, gli elementi da chiarire sarebbero diversi. In primo luogo l’accusa e i giudici non hanno tenuto conto dei pronunciamenti di altre corti. Infatti il primo a ritenere l’impianto accusatorio costruito dalla procura di Locri “laconico”, “congetturale”, “sfornito dei requisiti di chiarezza, univocità e concordanza” era stato il giudice per le indagini preliminari (gip) Domenico Di Croce, che nel 2018 aveva confermato gli arresti domiciliari per Lucano, ma aveva tenuto in piedi solo due delle accuse, facendo decadere tutte le altre.

Raccolta regolare

Si contestava a Lucano di non aver assegnato con una gara di appalto la raccolta dei rifiuti porta a porta e di aver provato a organizzare un matrimonio concordato, mai celebrato, per regolarizzare la posizione di una donna nigeriana che rischiava di diventare irregolare. In seguito a un ricorso presentato dallo stesso Lucano, anche la corte di cassazione ha giudicato confuso l’impianto accusatorio della procura di Locri e ha stabilito che l’affidamento della raccolta differenziata a due cooperative di Riace, che impiegavano migranti, era stato regolare. Nonostante questo, Lucano è stato rinviato a giudizio e il processo si è aperto l’11 giugno 2019 con numerose accuse tra cui quella per l’assegnazione diretta della raccolta dei rifiuti.

Successivamente anche il consiglio di stato ha dato ragione a Lucano, che aveva fatto ricorso contro la decisione di fermare il progetto di accoglienza di Riace, un mese dopo il suo arresto. La chiusura del centro di accoglienza nel paese è stata illegittima e il ministero dell’interno ha avuto un “comportamento ostile” verso Lucano per aver smantellato un progetto che fino a qualche mese prima aveva sostenuto e finanziato: questo è quello che ha stabilito il consiglio di stato.

Infine nel luglio 2020 il tribunale del riesame, chiamato a esprimersi sulle misure cautelari contro Lucano, aveva escluso il reato di associazione a delinquere e il vantaggio personale acquisito dal sindaco attraverso la sua attività. Ma né i pubblici ministeri né i giudici di Locri hanno tenuto conto dei pronunciamenti delle altre corti. L’inchiesta, avviata alla fine del 2016, ha riguardato in particolare l’attività di accoglienza a Riace tra il 2014 e il 2017 e si è basata sui rapporti ispettivi prodotti dal Servizio centrale (ex Sprar), su un’informativa della guardia di finanza, su alcune denunce e su una quantità enorme di intercettazioni.

C’è chi ha ritrattato

Nel caso Lucano sono state intercettate e trascritte le conversazioni degli indagati con giornalisti, magistrati, uno degli avvocati difensori di Lucano, un viceprefetto, l’ex portavoce della presidente della camera. Inoltre sono state riportate nei brogliacci delle indagini anche conversazioni private di Lucano, non rilevanti, proprio com’era successo nell’inchiesta avviata dalla procura di Trapani nel 2016 contro le ong impegnate nei soccorsi in mare di migranti.

Poi uno dei testimoni chiave del processo, Francesco Ruga, che aveva dato avvio all’inchiesta, denunciando Lucano per concussione, ha ritrattato le sue dichiarazioni durante il dibattimento. L’ex sindaco era accusato di aver fatto pressione su Ruga, che è un commerciante di Riace, per costringerlo a incassare i cosiddetti bonus, pezzi di carta con la faccia di Ernesto Che Guevara, Martin Luther King, Peppino Impastato, che permettevano ai rifugiati di far la spesa anche quando i fondi ministeriali arrivavano in ritardo. In aula Ruga ha ritrattato, riconoscendo che Lucano non lo aveva mai minacciato. Il gip Di Croce già nella fase preliminare aveva ritenuto il testimone inattendibile, perché a sua volta era stato accusato di corruzione da Lucano.

La prima informativa di controllo su Riace inoltre è stata redatta dall’avvocato Sergio Troilo, l’ispettore dello Sprar che nel febbraio 2021 è stato arrestato con altre 23 persone, perché si faceva pagare dai migranti, promettendogli il riconoscimento della protezione internazionale. Troilo è stato un altro testimone chiave nel processo contro Lucano.

Trascrizioni incongruenti

Secondo Giovanna Procacci, docente di sociologia in pensione, che ha seguito tutto il processo contro Lucano come osservatrice per il Comitato 11 giugno di Milano, gli elementi da chiarire sarebbero diversi: “Durante il dibattimento le trascrizioni ufficiali delle intercettazioni sono state consegnate in ritardo, perché gli uffici erano intasati. Nell’udienza del 25 settembre la difesa ha fatto presente che c’erano delle incongruenze tra le intercettazioni riportate in aula dal colonnello Sportelli e quello che era scritto nelle trascrizioni ufficiali. In generale le intercettazioni sono servite a riempire i vuoti delle prove documentali”, racconta Procacci, secondo cui il processo a Lucano è stato “politico” e avrebbe dovuto essere seguito con più attenzione dall’opinione pubblica e dalla stampa.

Commentando il caso Lucano molti hanno citato l’arringa di Piero Calamandrei in difesa di Danilo Dolci del 1956. Lucano, come Dolci, avrebbe violato la legge per rispettare la costituzione, ma dato il numero di anomalie registrate durante il processo all’ex sindaco di Riace vengono in mente anche le parole dello scrittore Leonardo Sciascia che, a proposito del processo a Enzo Tortora nel 1986, parlava della necessità di “un autoprocesso all’amministrazione della giustizia, a un suo modo di essere e di affermarsi”.

Quello che è certo è che nel caso Lucano la giustizia italiana ha mostrato molti dei suoi limiti.

Annalisa Camilli

Questo articolo è uscito sul numero 1430 di Internazionale