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Ucciso per il cappellino: un ragazzo morto nella nave dei migranti

L’Ong Moas, finita nel tritacarne mediatico, soccorre centinaia di persone in mare. La loro nave Phoenix sbarca nel porto di Catania con 394 persone a bordo e il corpo del giovane che sarebbe stato ucciso dallo scafista. La fondatrice dell’ong Moas accusa: «Contro di noi, attacchi da nazifascismo xenofobo»

Assassinato per un cappellino da baseball. Se fosse accaduto a un ragazzo dalla pelle bianca all’uscita da una discoteca o per le vie di Milano, Parigi o di chissà quale altra metropoli, probabilmente l’indignazione sarebbe stata planetaria. Invece, è successo a un giovane dalla pelle nera. Un africano della Sierra Leone di appena 21 anni, che non è stato colpito a morte mentre passeggiava con gli amici per le strade di una città dell’occidente, ma mentre, assieme a tanti altri migranti, era ammassato in un gommone in alto mare, nel Mediterraneo.

PROPRIO QUELLA SCRITTA che evoca uno degli sport più amati negli States per il ragazzo africano, che come chiunque navighi a bordo delle carrette le acque tormentate del Canale di Sicilia sognava una vita migliore nonostante si stesse allontanando dalla propria terra, è stata la sua condanna a morte. Il suo corpo, assieme a 394 persone salvate, è arrivato nel porto di Catania a bordo della nave Phoenix della ong Moas, l’associazione finita nel tritacarne mediatico per i sospetti di compromissioni con i trafficanti di uomini lanciati dal procuratore capo Carmelo Zuccaro. Dichiarazioni che hanno spaccato persino il governo Gentiloni su una questione su cui è intervenuto pure il Csm.

Secondo quanto riferito da alcuni testimoni al personale della Phoenix, il ragazzo era sul gommone insieme al fratello maggiore. Sarebbe stato assassinato solo perché si sarebbe rifiutato di consegnare il cappellino da baseball a un trafficante che lo voleva. Ispezionando il cadavere, il medico legale, incaricato dalla Procura che ha aperto una inchiesta, ha rilevato un foro di proiettile, sparato probabilmente alle spalle con una pistola. La sparatoria, in base alle testimonianze, sarebbe avvenuta davanti agli occhi terrorizzati di decine di migranti: il corpo della vittima è rimasto adagiato per ore, vegliato dal fratello fino a quando non sono arrivati i soccorritori della ong Moas che lo hanno issato a bordo assieme ai sopravvissuti.

Gli agenti della mobile hanno ascoltato anche Regina Catrambone, fondatrice col marito Christopher della ong. «Noi non siamo trafficanti – chiarisce subito la donna – noi siamo persone che non sono riuscite a restare indifferenti alle morti in mare. E dopo la terribile tragedia delle 368 persone morte al largo di Lampedusa abbiamo partecipato a Mare Nostrum rispondendo anche all’appello dell’Europa che chiedeva un intervento concreto per aiutare l’Italia. Risposta che non c’è stata da nessuno tranne che dalla società civile e da alcuni singoli, che eravamo io e mio marito, e abbiamo sempre cooperato con tutti, con Frontex, con la marina militare italiana. Noi chiediamo rispetto per tutto il personale delle ong e delle organizzazioni umanitarie che cooperano in mare».

E ALLE ACCUSE di compromissioni replica: «Non ho mai ricevuto telefonate da scafisti, noi odiamo i trafficanti di persone. Non ho parlato con nessuno di loro». Affermando di «non avere avuto mai contatti» con la Libia e di avere invece «sempre parlato con la guardia costiera italiana». E se qualcuno ha commesso reati, aggiunge, «si lavori, si indaghi», ma, avverte, «basta fango e sciacallaggio mediatici» perché «noi ci mettiamo cuore e passione». «Ho visto – attacca Regina Catrambone – una strumentalizzazione da parte dei partici politici. Per cosa poi? Per ottenere più voti? A noi questo non interessa, non facciamo politica, a noi interessa salvare vite umane». «Per noi la cosa più importante – evidenzia la fondatrice di Moas – è il sorriso di un bambino che ci ricorda quanto importante sia la vita. Ma tutto questo viene dimenticato per queste polemiche e i media si lasciano strumentalizzare».

REGINA PARLA DI «NAZIFACISMO xenofobo». «Sono fortunata ad avere la pelle bianca – argomenta – se l’avessi di un altro colore avrei tanta paura ad andare in giro. Sono nostri fratelli, sanguinano come noi». E sul telefono satellitare Thuraya che secondo un’ipotesi investigativa sarebbe stato utilizzato più volte per mettere in contatto migranti e ong, dice: «C’è un telefono satellitare che viaggia con un piccione viaggiatore? Questa non la capisco…. Se esiste, perché non chiamano le persone che lo hanno? Vadano in Libia. Abbiamo un’ambasciata italiana lì. Non è difficile arrivare in Libia, che è a un tiro di schioppo dalla Sicilia. I procuratori che si occupano di queste indagini – chiosa Regina Catrambone – andassero sul campo a ricercare queste prove». E si dice pronta «a consegnare» i conti della ong «alla Procura se ce lo chiede, purché poi restino riservati».

«Noi – osserva – abbiamo anche un’etica nel raccogliere fondi e abbiamo accettato contributi solo da chi aveva i requisiti da noi fissati con rigore. E finora tutti li hanno avuti». Quindi smentisce di avere «contatti con l’intelligence Usa». Le definisce «gravissime illazioni senza fondamento», forse legate al fatto che «mio marito è un cittadino statunitense». «Se incontro il procuratore Zuccaro – si sfoga – lo saluto e lo abbraccio come un fratello. E adesso gli mando un bacio».

Alfredo Marsala

da il manifesto