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Un altro caso Sandri sul Raccordo anulare

E’ un nuovo caso Sandri, forse anche peggio. Una persona è stata uccisa su un’autostrada da un agente di polizia. E’ accaduto 14 mesi fa sul Grande raccordo anulare ma forse nessuno se n’è reso conto perché i giornali hanno usato quasi tutti parole depistanti: “Sparatoria sul Gra”, “Inseguimento di uno stalker”, qualcuno lo paragonò al film Shine. Si chiamava Bernardino Budroni, per tutti Dino. Soprattuto per i suoi genitori, per la sorella Claudia, il cognato Fabrizio, le nipoti. Il proiettile calibro 9 lo ha trapassato dal fianco sinistro, perforando i polmoni e il cuore. E’ successo al km 11, lo svincolo per Mentana.
Da 14 mesi la famiglia aspettava un fascicolo sulle indagini arrivato poche ore fa. Chi ha sparato è indagato per omicidio colposo. Perché, secondo un pm, sparava a distanza ravvicinata quando ormai «l’utilizzo dell’arma, in quella fase dell’operazione, comportava un rischio non più proporzionato alla residua possibilità di azioni lesive e pericolose».
Ma il fascicolo non riesce a dissipare tutti i dubbi accumulatisi da quel 30 luglio del 2011. Perché, ad esempio, non sono stati mai acquisiti i filmati delle telecamere piazzate a pochi metri dall’uscita del Gra dove si sono svolti i fatti? I colpi furono esplosi durante l’inseguimento oppure quando era già fermo? E’ morto a bordo della sua macchina oppure nel tragitto verso il Pertini, a bordo dell’ambulanza? Era armato? Perché solo 426 giorni dopo la famiglia apprende che sul sedile della Focus ci sarebbe stata una scacciacani? Perché manca la perizia sulla pistoletta che sparava a salve?

Lo sparo e la corsa

Chi ha sparato è un agente scelto, quando lo ha fatto aveva 28 anni. Nessuno gli ordinò di farlo quella notte, nemmeno di mirare alle ruote. Dino aveva dodici anni in più di lui. L’agente scelto, pare, era seduto dalla parte sbagliata. Doveva trovarsi alla guida della volante 10 non sull’altro sedile. Quale «emergenza» si verificò per non farlo guidare? Di fronte al pm, due giorni dopo i fatti, dirà di aver esploso due colpi dopo un inseguimento di dieci minuti. Anche quello che non uccise andò fuori bersaglio, bucando la lamiera dello sportello. Altre due auto, Beta Como della polizia e una gazzella dei carabinieri, parteciparono all’operazione, “agganciando” la volante 10 nel tragitto. Erano più o meno le 5 del mattino del sabato dell’esodo estivo. La Focus era praticamente incastrata sulla destra della corsia. I carabinieri l’avevano sorpassata e s’erano messi di traverso, lo sportello di destra toccava appena la Focus che, a sua volta, ha toccato il guard rail. Un piccolo segno di vernice, come un’unghia, sta ancora lì a testimoniarlo, a pochi metri dalla foto e dai fiori, sempre freschi. Sullo sportello posteriore destro di Budroni c’è il segno di una gomma di, forse, di Beta Como. La scena sembra quella di una macchina inseguita che prova a divincolarsi zigzagando. L’agente che ha sparato riferisce che era stato parecchio occupato dall’una meno un quarto di quella notte a cercare il Budroni che era andato sotto l’abitazione della sua ragazza, nel quartiere di Cinecittà, una ventina di chilometri da dove è finito l’inseguimento. Un brutto caso di danneggiamento di porte e cancelli, di sms minacciosi e di disturbo della quiete pubblica, probabilmente. “Crimini” che non prevedono la fucilazione immediata. Chi ha sparato sapeva quasti tutto di Budroni: che abitava nel comune di Fontenuova e che aveva una pendenza per il possesso di una balestra (acquistabile ovunque) e un fuciletto ad aria compressa. Per questo, così ha dichairato, ha tirato fuori la Beretta Parabellum quando ha affiancato la Focus verde mare. Dice di essere stato col braccio «perfettamente in asse» con la ruota posteriore sinistra ma che la Focus provava a svicolare spostando di scatto il bersaglio. Quanto forte andasse e quanto tempo sia passato tra lo sparo e l’arresto, l’agente scelto non ricorda. Di certo, egli stesso ha dichiarato che Dino non era armato ma agiva forse sotto l’effetto di droghe. Droghe che la perizia tossicologica quantificherà in modeste e antiche tracce di cannabis. Budroni, comunque, aveva alzato il gomito. Un “reato” che non prevede la pena di morte per esecuzione sommaria.
Ricordi confusi

Uno dei due carabinieri ha detto al pm Orano: «Appena ci siamo fermati ho sentito due colpi di pistola», però non avrebbe visto lo sparatore. Sceso dalla gazzella con l’arma in mano, il carabiniere riesce a vedere Dino Budroni immobile: «Mi parve alzare le mani in segno di resa, subito dopo lo stesso si è accasciato sul suo fianco destro». Qualcuno gridò «Chi ha sparato? Questo è ferito!». La scena, a questo punto, si fa più confusa: la gazzella – che è intatta – viene spostata perché chi è seduto a destra del volante non riesce a scendere. I ricordi dei sei operatori non sono perfettamente sovrapponibili. Gli orari si accavallano. Il carabiniere è sicuro di non aver visto armi ma sente dire che forse è stata trovata una pistola dai suoi colleghi. Sarebbe la scacciacani di cui i familiari non avevano mai sentito parlare, né da Dino, né nei giorni dopo la pistolettata che lo ha freddato. Un passo indietro: verso le 4.45, la Volante 10 torna a Cinecittà per accompagnare a casa la ragazza di Budroni che era andata in commissariato a sporgere denuncia. La Focus sembra stesse lì sotto, la videro sgommare e schizzare via. Inizia l’inseguimento. Via via si aggiungono gli altri equipaggi. Il collega di chi sparò dice che la Focus si fermò contro il guard rail dopo i colpi. Ma se pure è accaduto, la velocità era così bassa che l’urto non ha lasciato segni. Si potrebbe dire che l’auto era ferma. Oppure, come dirà l’autosta della Volante 10: «Essendo la sua corsa già notevolmente rallentata». La perizia stradale scrive che la Focus “a bassissima velocità, si adagiava sul guardra il metallico posto oltre il margine destro della carreggiata. Nella fattispecie, infatti, il guardrail riportava un’abrasione superficiale compatibile non con un vero e proprio urto ma con una manovra di accostamento”. L’autista di Beta Como sentì un colpo «qualche secondo prima dell’arresto». La Focus, una volta bloccata, aveva la prima innestata. E l’auto dei carabinieri era lì a bloccarla, a una manciata di centimetri. Ma quando spunta fuori l’arma farlocca? Toccò a loro di Beta Como chiamare il 118 e chi lo fa è sorpreso perché l’impatto era stato «modesto». Ma è uno di Beta Como a scorgere l’arma finta, sotto il corpo del quarantenne ucciso. Ma la toglie, lui dice «per motivi di sicurezza» e, quando sfila il caricatore, si accorge dei colpi a salve. All’arrivo, forse, di un ufficiale dei carabinieri la ricollocherà sul sedile. E’ normale? Era la prima volta che vedevano quell’arma. Durante l’inseguimento non era mai comparsa. E, fino a ieri, nessuno dei familiari ne aveva sentito parlare e neppure i cronisti locali che hanno seguito il caso.
Domande senza risposta
Nel fascicolo mancano ancora le dichiarazioni del personale sanitario e l’audio delle conversazioni con la centrale. Si sa solo che il «cadavere è stato prelevato» e che i sanitari ebbero il tempo di perquisire senza fretta la vittima trovando un temperino in tasca ai calzoni di Budroni. Un testimone dirà al legale della famiglia, Michele Monaco, di aver visto Dino riverso sullo sterzo con le braccia penzoloni e l’ambulanza dietro, come se attendesse qualcuno. Ma gli orari non collimano, si tratterebbe di almeno dieci minuti prima di quanto dichiarato dai poliziotti e troppo poco per essere arrivato lì da Cinecittà. Alle quattro meno cinque, Budroni sente Fabrizio: «State tranquilli, tra dieci minuti sto a casa». Uno scontrino nel portafogli restituito dai carabinieri suggerisce che Budroni aveva ordinato una birra in un bar del quartiere Nomentano alle 4 e 14 minuti. Un bar che sta a soli 4 chilometri dal luogo della morte ma in tutt’altra direzione da quella dell’inseguimento. Le domande e le ipotesi da quattordici mesi si affollano nella mente di chi mi ha raccontato questa storia dopo avere scritto a Vittorio Agnoletto, l’ex portavoce dei social forum, per cercare un rapporto con la stampa. Sono persone scaraventate in un incubo e che, per tentare di uscirne, saranno costrette a riviverlo un’infinità di volte per inseguire brandelli di verità e manciate di giustizia.
 
 
Checchino Antonini da Globalist