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A un anno dal G20 di Amburgo. Intervista a Peter Ullrich e Donatella Della Porta

A un anno dalle mobilitazioni di Amburgo, Anna Clara Basilicò ha intervistato Peter Ullrich – ricercatore della Technische Universität Berlin – e Donatella Della Porta – professoressa ordinaria della Scuola Normale Superiore di Firenze. Entrambi collaborano al progetto di ricerca Mapping #NoG20, che mira a ricostruire scientificamente le dinamiche repressive e giudiziarie legate ai fatti del G20.

Domanda: Entrambi fate parte del progetto di ricerca Mapping #NoG20, portato avanti dall’Institut für Protest- und Bewegungsfoschung (IPB) di Berlino. Come è nato questo istituto? Qual è il vostro ruolo all’interno di questo progetto?

Peter Ullrich: L’IPB è un “network institute”, una sorta di rete di ricercatori che non fa riferimento ad alcuna sede fisica. L’obiettivo con cui è nato è colmare il vuoto lasciato dal mondo accademico tedesco per quanto riguarda la ricerca sui movimenti sociali e sulle proteste attraverso collaborazioni, comitati di ricerca, conferenze e una serie di pubblicazioni. In queste attività sono coinvolti ricercatori da tutta la Germania, ma non mancano i rapporti con gli altri Paesi (si veda ad esempio il lavoro fatto con Donatella o con studiosi svizzeri, austriaci o francesi). L’anno scorso l’istituto ha organizzato una conferenza internazionale a Bochum sull’organizzazione trasversale dei movimenti, ma ciononostante tendiamo a concentrarci sul contesto tedesco, precisamente per riempire il gap già menzionato. Per quanto mi riguarda, sono un membro dell’Istituto, pur occupando la posizione di co-dirigente, insieme a Simon Teune e Stefan Malthaner, dell’area di ricerca “Movimento sociali, tecnologie e conflitti” alla Technische Universität di Berlino, uno dei principali soggetti impegnati nel progetto Mapping #NoG20. Documentation and analysis of the violent escalation during protests against G20 summit in Hamburg 2017.

Donatella Della Porta: insieme ad altri colleghi sono stata invitata come membro di un comitato scientifico per questa iniziativa, nata in parte “dal basso” con lo scopo, tra le altre cose, di fornire una risposta politica sia ai fatti del G20 di Amburgo in sé, sia alla posizione adottata da gran parte della stampa mainstream, che ha accolto la versione ufficiale degli organi di governo. All’indomani del summit infatti è parso molto difficile trovare una considerazione dei fatti come realmente accaduti. L’analisi scientifica degli eventi del luglio passato e dei provvedimenti che ne sono seguiti procede all’interno di un quadro comparativo più ampio: da un lato la storia dei contro-summit in territorio tedesco, dall’altro invece la relazione tra forze dell’ordine e misure adottate dal 1999 a Seattle in poi. Il focus è dato comunque all’escalation del rapporto tra polizia e manifestanti. Come diceva Peter, i risultati di questa ricerca saranno disponibili anzitutto in tedesco, ma verranno tradotti anche in inglese. Su suolo tedesco infatti le quattro giornate di Amburgo si pongono nella scia di altre proteste, tra cui inevitabilmente Blockupy, ma essendo un vertice mondiale ha caratteristiche che superano i confini nazionali e che non possono essere lette solo all’interno della storia “locale”. Anche per questo tra il materiale che è stato raccolto ci sono testimonianze di attivisti da tutta Europa.

D: Poco dopo il summit, la sezione speciale “Schwarzer Block” ha implementato e diffuso un database online che raccoglieva immagini e video degli scontri di Amburgo con lo scopo dichiarato di ottenere dalla popolazione indicazioni utili per l’identificazione dei responsabili. Come ha reagito l’opinione pubblica? La stampa ha avuto un ruolo di rilievo in queste dinamiche?

P.U.: In generale, le considerazioni sul G20 hanno portato a una forte polarizzazione del dibattito pubblico, com’era prevedibile – nonché evidente – già all’indomani del summit. Da un lato i manifestanti protestavano per il diritto di scendere nelle strade e di avvicinarsi alla zona rossa, dall’altro gli organi per l’ordine pubblico fiancheggiavano le misure della polizia. Lo stesso scarto si è verificato nella stampa. Quando la polizia ha diffuso il database, i media “liberali” e legati alla scena di sinistra hanno sollevato forti obiezioni, considerando che molte delle persone che apparivano in quelle immagini non avevano ricevuto formale accusa. Per di più, tra i sospettati, le accuse potrebbero variare sostanzialmente, fino ad includere imputazioni minori (che non giustificano il ricorso a simili mezzi). Ciò nondimeno, sono stati tutti consegnati alla pubblica gogna. Si tratta di strategie che rimandano alla ricerca di terroristi sospettati di far parte della RAF: direi sproporzionate rispetto alla situazione del 2017.

D’altro canto, in parecchi hanno caricato fotografie o video sui social network, su canali Youtube o su altri siti, fornendo alla polizia la possibilità di raccogliere migliaia di immagini o per le indagini anche da utenti involontari. Questa campagna ha portato a conseguenze talvolta estreme: i tabloid tedeschi si sono tendenzialmente schierati a fianco della polizia mettendo in prima pagina fotografie degli indiziati. Il Bild-Zeitung ad esempio pubblicò la fotografia di una manifestante, che si scoprì non essere nemmeno maggiorenne, descritta come una “Krawall-Barbie” (una “riot-Barbie”) «così giovane, e così piena d’odio». Un episodio del genere, oltre a una condanna alla berlina, contiene una forte connotazione sessista.

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Alcuni attivisti hanno replicato tuttavia alla campagna pubblicando post di foto segnaletiche che ritraevano agenti e politici, a loro dire, responsabili della violenta condotta delle forze dell’ordine in quei giorni. Come prevedibile, la provocazione ha scatenato reazioni polemiche.

D: In molti casi, le immagini diffuse non permettono un effettivo riconoscimento, mostrando solo alcune delle scene più violente. Si può pensare a una strategia di criminalizzazione funzionale del dissenso? Un tentativo di suscitare reazioni specifiche nel pubblico? È una misura già sperimentata altrove?

D.D.P.: Sicuramente si colloca all’interno di tendenze già esistenti nel controllo dell’ordine pubblico. Possiamo fare due esempi: un primo contesto in cui da tempo si sperimentano strategie come questa è lo stadio. Le immagini raccolte durante le manifestazioni sportive infatti vengono generalmente diffuse sia a scopo intimidatorio che per ottenere il consenso della popolazione civile nei confronti delle misure adottate per il controllo della violenza. Un altro tentativo di coinvolgere la popolazione si ha nelle campagne contro la cosiddetta “radicalizzazione”. Analizzando in particolare il fondamentalismo islamico, è stato notato che il processo di radicalizzazione segue tempi dilatati e costanti, caratterizzati da alcune fasi. Una di queste, che caratterizza gli stadi iniziali, è l’intensificazione della pratica religiosa; in molti Paesi una delle strategie adottate è stata quella di coinvolgere la comunità, gli insegnanti, i medici, nella comunicazione di questi episodi. Dal mio punto di vista, l’implicazione della popolazione civile, cui viene attribuito un nuovo grado di responsabilità, nella legittimazione delle forze dell’ordine risponde a un duplice scopo: da un lato l’isolamento degli individui descritti come responsabili di casi di violenza, dall’altro, in termini più generali, la responsabilizzazione e la partecipazione del “pubblico”, dei cittadini, nella repressione di alcuni episodi.

Per quanto riguarda il contesto di Amburgo, questa strategia è stata applicata anche alle organizzazioni non violente: ugualmente richiamando, sottolineando o attribuendo gradi di colpevolezza a quanti sono normalmente definiti “buoni dimostranti”, si è dato una sorta di outsourcing delle responsabilità sulla sovversione o sul mantenimento dell’ordine pubblico anche agli organizzatori e alla popolazione più in generale.

Personalmente credo che strategie di questa natura siano inefficaci per la polizia. Suscitano sicuramente molto clamore, ma da un punto di vista utilitaristico, non ottengono effettivamente un incremento di dati pertinenti alle indagini.

D: Peter, come hai detto poco fa, molte delle fotografie, dei video e delle notizie condivise online durante le proteste contro il G20 sono state usate dalla polizia come prove o come supporto alle indagini. Persino la piattaforma di comunicazione indipendente linksunten.indymedia.org è stata oscurata. Il ricorso a strumenti di sorveglianza digitale hanno avuto un peso specifico durante –e dopo – il G20?

P.U.: Sì, direi senz’altro di sì, anche se non si configurano come un nuovo trend: simili strumenti sono piuttosto il risultato di uno sviluppo costante di cui siamo testimoni da anni. L’uso di sistemi di sorveglianza digitale è solo uno dei dispositivi delle moderne società di sorveglianza, cui fa il paio ad esempio la militarizzazione della gestione delle proteste, caratterizzata da un più ampio uso della tecnologia, da dotazioni sempre più protettive, dall’introduzione di armi pseudo-belliche e dalla fortificazione degli spazi destinati ai summit. Ad Amburgo, la polizia ha voluto dar sfoggio del suo intero potenziale.

Le forze dell’ordine hanno sfruttato inoltre un nuovo software high-tech che permette di vedere su un grande schermo l’intera città e le segnalazioni di tutte le situazioni critiche in tempo reale. Le informazioni erano ovviamente fornite dalle unità sul campo, ma venivano raccolte anche dai tweet, dai post su Facebook, da qualsiasi informazione pubblicata su web, in effetti. I servizi segreti  (Verfassungsschutz) inoltre hanno ricoperto un ruolo cruciale nelle fasi preparative. Nonostante qualsiasi loro contributo rimanga ovviamente secretato, le informazioni raccolte – probabilmente anche tramite infiltrati – sono state decisive nella pianificazione delle strategie adottate: un problema se si ambisce a un controllo e a una legittimazione democratici.

Un’altra caratteristica importante della gestione del G20 è stato l’uso attivo dei social media da parte delle forze dell’ordine, usati non solo come fonti di informazione, ma come campo d’azione. In questo modo, non hanno infatti avuto bisogno di ricorrere o aspettare alcun intermediario per poter diffondere la loro versione dei fatti, guadagnando l’indipendenza dalla stampa. Postando direttamente sui loro canali Facebook a Twitter, sono riusciti a raggiungere un grandissimo pubblico. È stato attraverso questi espedienti che sono riusciti a diffondere notizie che solo in un secondo momento sono risultate fake news: mi riferisco ad esempio alle note che avrebbero voluto i manifestanti dotati di molotov o posizionati sui tetti e armati di enormi massi, versioni che non hanno mai trovato alcun riscontro.

D: Considerando l’uso di questi strumenti per la sorveglianza digitale o di altri dispositivi high-tech, credi che Amburgo si possa ritenere come un punto di svolta per quanto riguarda le strategie preventive? I comportamenti adottati dalle forze dell’ordine si iscrivono in un quadro quanto già chiaramente orientato?

P.U.: Io tenderei a non sopravvalutare Amburgo, né la identificherei come un punto di svolta significativo. Amburgo è stata semmai il simbolo di una sommatoria di tendenze generali accompagnate da alcune specificità locali. Come dico spesso, se il summit si fosse tenuto altrove, le proteste si sarebbero sviluppate in maniera diversa: pertanto molto di quello che è successo può essere imputato al particolare contesto della città anseatica, dove la storia degli aspri conflitti tra movimento sociali e polizia ha tratti piuttosto peculiari.

Le dinamiche predominanti impostate dalle forze dell’ordine sono state sicuramente determinanti nell’evoluzione dell’escalation. Nella capitale anseatica, la polizia ha fatto ricorso a un approccio preventivo: da questo punto di vista, Amburgo presenta una situazione dell’ordine pubblico piuttosto singolare in Germania. La gestione legalitaria adottata dai dipartimenti di sicurezza si appellava infatti all’uso di dispositivi di sorveglianza, a tecnologie avanzate e a una bassa soglia di intervento (niedrige Eingreifschwelle), che prevedeva la possibilità di ingerenze ai primi segnali di attività potenzialmente illegale.

L’approccio specifico delle forze di polizia durante il G20 si è palesato in una massiccia ostentazione di forza: si è fatto ricorso a 31.000 agenti, 48 cannoni d’acqua, aeroplani, elicotteri, cavalli, cani, barche e addirittura a un carro armato appena prodotto. Il ministero dell’interno ha concentrato tutto quello di cui disponeva in quella città. Prendendo visione di tutte quelle armi e di quelle dotazioni, la prima riflessione che ne consegue riguarda una delle tendenze che il controllo delle proteste sta via via assumendo: la militarizzazione delle forze dell’ordine. A questo proposito, si configurano come rilevanti due aspetti in particolare: la polizia è anzitutto focalizzata sul terrorismo e sul pericolo di diventarne un possibile bersaglio. Dal che ne deriva la volontà di disporre di armamenti   simili a quelli del nemico – ed ecco spiegato l’utilizzo di divise altamente protettive, di armi pseudo-belliche etc. In secondo luogo invece, quello che si può notare è lo sviluppo di un’attitudine alla prevenzione che è peraltro vittima del proprio successo e si rivela portatrice di istanze più che altro repressive.

È ad esempio del tutto normale, in Germania, che le manifestazioni più radicali siano circondate su tutti i lati da cordoni di polizia, così come lo sono i controlli all’arrivo ai luoghi di concentramento. Le divise poi date in dotazione alla polizia rimandano immediatamente alle immagini di Robocop: ad Amburgo ad esempio gran parte degli agenti indossava un passamontagna, nascondendo persino l’ultimo lembo di pelle esposta. Si tratta di pratiche preventive: si cerca in questo modo di ridurre al minimo il potenziale di scontro e di innalzare quanto possibile la soglia del controllo, cercando di prevenire qualsiasi rischio di violenza fin dal primo istante. Ma questo dispiegamento di misure cosi totalizzante – reso ancor più grave dallo stile militare adottato – conduce a effetti di fatto repressivi. Le manifestazioni assumono i connotati di situazioni pericolose e le persone se ne tengono alla larga. Sostanzialmente, radicalizzando il proprio approccio, finiscono con il produrre dinamiche a tutti gli effetti repressive. Si tratta di una conseguenza forse non prevista nelle prime fasi di pianificazione, che tuttavia si è rivelata essere un nodo cruciale nella militarizzazione del processo di gestione delle proteste.

D: A questo proposito, considerando il quadro italiano, la prevenzione e la gestione emergenziale sembrano essere stati due dei pilastri delle ultime legislazioni in materia di controllo dell’ordine pubblico. Le prerogative di provvedimenti come il DASPO urbano o dell’arresto in flagranza differita sono infatti ben distanti dalle basi dei tradizionale diritto penale. Un approccio di questo tipo come influenza le politiche di controllo delle proteste?

D.D.P.: Una delle caratteristiche del DASPO e degli altri interventi, che trovano sempre più ampio campo d’applicazione, è il limitatissimo controllo giudiziario: sono strumenti con alto grado di discrezionalità da parte della polizia. Quel che è stato osservato nel caso italiano – la cui legislazione in materia residua da provvedimenti di epoca fascista – è il ricorso sempre più intensivo a questi provvedimenti anche nei casi di gestione della protesta politica, laddove agli attivisti viene ridotta la possibilità di movimento sia “in entrata” che “in uscita”, attraverso il divieto di accedere a determinati luoghi o di allontanarsi da altri. Si tratta di misure autoritarie e restrittive, che riguardano sia la libertà di movimento che il controllo degli spazi stessi. Quello dello “spazio” è un elemento interessante, io credo, perché nel giudizio penale tradizionale ad essere sottoposto a provvedimento punitivo è l’autore di un atto criminoso, individuato dopo investigazioni. Ora invece il concetto di repressione si trasforma, viene distorto e amplificato, fino ad applicarsi a intere categorie di persone: non più quindi chi ha commesso l’atto, bensì chiunque venga considerato per alcune caratteristiche proprie – ideologiche, di provenienza, di fede, d’età etc. – potenzialmente in grado di commettere un reato può essere perseguito.

Il reato in sé non sussiste tuttavia: ad intervenire non è quindi la magistratura, bensì la polizia, che giudica tali individui come appartenenti a categorie a rischio e può agire riducendo, restringendo la loro libertà di movimento. Questa misura, rilevante su scala internazionale ma ben presente anche nel caso di Amburgo, si manifesta ad esempio dichiarando l’ingresso ad alcune aree (le cosiddette “zone rosse”) come un reato di per sé. In Italia è chiaramente evidente nella repressione dei movimenti No Tav, dei comitati contro gli inceneritori, dei No Muos etc: determinati spazi vengono ad esempio definiti “zone militari” e il semplice fatto di protestare in quei luoghi è perseguibile.

Queste forme di criminalizzazione sono quindi rivolte specificamente a spazi e categorie di persone su cui convergono misure non più orientate all’individuare i responsabili o alla repressione del reato, bensì, in una sorta di sforzo preventivo, all’estromissione dei gruppi considerati potenzialmente rischiosi dai luoghi visibili (dalle zone rosse alle aree di scavo o trivellamento), costringendoli ai margini delle città, in aree non rilevanti. Livio Pepino, ex magistrato attivo sul fronte della lotta alla repressione, ha definito questa tendenza come un’elaborazione del “diritto penale del nemico” orientata, come dicevo, non al contrasto di un crimine, ma alla circoscrizione di gruppi che per caratteristiche proprie sono ritenuti “a rischio”. La dimensione spaziale, e la relativa gestione, risentono poi della diffusione di spazi “semi-privati” o della privatizzazione di spazi pubblici, come gli aeroporti – e si veda qui l’importanza di tale elemento in una protesta come quella di Blockupy -, in cui a decidere sono compagnie, che possono di conseguenza assumere anche servizi di vigilanza privata. Se quindi storicamente uno dei trend della democratizzazione della polizia era stata l’attribuzione dei controllo dell’ordine pubblico allo Stato, adesso assistiamo alla crescita della privatizzazione e all’outsourcing di queste competenze. Penso ai college negli Stati Uniti, o alle fabbriche, dove la polizia privata era presente già negli anni Sessanta

Un altro provvedimento che si affianca a queste strategie di prevenzione e controllo sia nel caso di proteste politiche che, ad esempio, per quanto riguarda fenomeni di radicalizzazione, è l’introduzione di alte pene pecuniarie non solo per chi commetta reati ma anche per chi partecipi o organizzi proteste durante le quali ne vengano commessi. Negli Stati Uniti ad esempio si stanno studiando alcuni provvedimenti approvati dalle amministrazioni locali pro-Trump che mirano a reprimere le proteste anti-Trump proprio attribuendo lo status di colpevolezza non solo a chi, durante un’escalation di violenza, abbia provocato danni, ma anche agli organizzatori stessi delle manifestazioni, che rischiano addirittura il sequestro dei beni immobili.

D: Un’ultima domanda. Dopo circa un anno, circa un mese fa abbiamo avuto notizia di numerosi arresti in tutta Europa. Quali sono le forme di cooperazione trans-nazionale tra le forze dell’ordine?

P.U.: Esistono trattati tra i diversi Paesi che obbligano le polizie nazionali a fornire supporto l’una alle altre. Nella gestione delle proteste politiche esistono in particolare diverse forme di collaborazione. In Europa ad esempio le forze dell’ordine hanno lavorato per diversi anni a un progetto di ricerca (Godiac) che aveva un focus specifico sui contro-summit. Hanno studiato ad esempio le strategie di protesta, le contro-tattiche etc. Ed esistono database comuni, che permettono una fitta cooperazione. Ma, naturalmente, le indagini richiedono tempo, anche se si hanno a disposizione 170 uomini, software per il riconoscimento facciale etc.

Il che mi porta a un’altra considerazione: occorre tenere presente la complessità degli eventi che si sono verificati ad Amburgo. Abbiamo infatti assistito a una spirale di violenze con diverse parti in causa. Durante il corteo “Welcome to Hell” ad esempio, quando la polizia ha caricato i black bloc, parecchie tra le persone che si erano riunite nei dintorni solo per vedere cosa stesse succedendo hanno preso parte agli scontri rispondendo all’attacco dei reparti mobili. Anche all’interno del corpo dei manifestanti si sono poi verificati attriti: quando alcuni gruppi hanno tentato di appiccare alcuni incendi, altri militanti sono intervenuti a bloccarli. Si è trattato quindi di una situazione complicata, al cui interno era impossibile, per la polizia, determinare con sicurezza chi fosse colpevole e chi no. Questi elementi rendono necessaria una riflessione accurata e di ampio spettro. Il discorso politico mainstream tende troppo facilmente ad ascrivere tutto quel che è successo a piani strategici e premeditazioni. Ma simili conclusioni non tengono conto dell’escalation che si è sviluppata ben oltre i limiti temporali di una settimana, a partire dall’intralcio ai campeggi fino ai violenti scontri durante il summit.

Anna Clara Basilicò

da GlobalProject