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Un disegno repressivo e perverso

A Torino si gioca una partita più grande di un singolo, mostruoso teorema: a essere sotto processo non sono solo i militanti dell’Askatasuna e No Tav ma le lotte sociali del paese

di Fasulin* da Jacobin Italia

Il 31 marzo presso il Tribunale di Torino, verrà proclamata la sentenza di primo grado del processo per associazione a delinquere che vede imputate ventisei persone con la richiesta di 88 anni di carcere in totale per 72 capi di imputazione, 66 dei quali riguardano le proteste contro il Tav in Val di Susa.

È storia consolidata che le nuove istanze politiche e le battaglie per i diritti civili e umani vengano spesso represse dai governi, più interessati in ogni parte del mondo al mantenimento dello status quo e dei privilegi delle élite dominanti. Da che emisfero si guardi la storia dei popoli questo non cambia, uomini e donne in tutto il mondo hanno dovuto lottare, talvolta fino a sacrificare la propria vita, per imporre dei cambiamenti necessari al raggiungimento, ad esempio, della giustizia sociale e alla tutela di minoranze, spesso oggetto di discriminazioni. Non a caso la protesta, il suo diritto a esprimersi e le vite di chi si impegna in tal senso, vengono spesso attaccate dai poteri giudiziari, al fine di annichilire le spinte di cambiamento e spaventare chi un giorno potrebbe decidere di mettersi in gioco, per sé e per gli altri.

L’attacco che vede protagonisti il Movimento No Tav e il centro sociale torinese Askatasuna, si gioca su un terreno pericoloso per la libertà di opinione e di dissenso creando un precedente molto grave per le lotte che da nord a sud animano il nostro paese, in un momento storico in cui assistiamo progressivamente a un’accelerazione dello scenario bellico e a una significativa riduzione della possibilità di dissentire.

Del resto, la repressione attuata dal governo ha assunto delle caratteristiche particolari. con lo Stato, con i suoi apparati repressivi, giudiziari e mediatici, che muove verso l’espulsione e la criminalizzazione a priori di tutto ciò che produce conflittualità.

Il Ddl Sicurezza è la perfetta espressione di questa tendenza: di fronte a una grave crisi sociale, si risponde su un piano squisitamente penale, mirando a punire qualunque forma di protesta spontanea e di solidarietà attiva, come nel caso di un semplice blocco stradale o dell’occupazione a scopo abitativo. Non è un caso che tra le novità introdotte da questo decreto trovi spazio una particolare attenzione agli attivisti e alle attiviste climatiche, così come a chi si oppone alla costruzione di Grandi opere sul territorio.

In questa cornice, l’utilizzo del reato associativo rappresenta l’espressione di un disegno repressivo perverso. Non si tratta più di perseguire alcuni illeciti in quanto tali, che da sempre vengono commessi all’interno delle pratiche con cui si esprime il conflitto sociale (come la resistenza a pubblico ufficiale o il blocco stradale), ma di criminalizzare l’opposizione sociale in sé, facendo propria un’esasperata logica persecutoria di interi movimenti sociali e politici.

Questa pratica purtroppo non è del tutto inedita. Torino, infatti, nel corso dell’ultimo ventennio è stata utilizzata come laboratorio di strategie repressive oggi applicate anche nel resto del paese. Molteplici sono stati i provvedimenti utilizzati: avvisi orali, fogli di via, sorveglianze speciali, sanzioni pecuniarie per illeciti amministrativi e richieste di ingenti risarcimenti per danni. Fino ad arrivare alle accuse di terrorismo applicate al conflitto sociale, con conseguenze molto pesanti sulle vite delle persone coinvolte.

Nel 1998 i Pubblici ministeri della Procura di Torino Laudi e Tatangelo, con il supporto di Ros e Digos (Divisione Investigazioni Generali e Operazioni Speciali), arrestarono gli anarchici Edo, Sole e Silvano, con un’accusa pesantissima: associazione con finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico chiamata «Lupi Grigi». L’ipotesi era che avessero compiuto attentati ai danni di infrastrutture come tralicci di telefonia e centraline elettriche in Val Susa, e che ne stessero pianificando altri. La Procura di Torino è inflessibile – il Pm Laudi dichiarò addirittura di possedere «prove granitiche» della loro responsabilità – e la stampa locale sposò apertamente questo disegno della Procura, con una campagna mediatica dove per la prima volta si fece uso del termine ecoterroristi. Il 28 marzo 1998, dopo tre settimane di detenzione al Carcere delle Vallette di Torino, Edo venne trovato morto impiccato nella sua cella. Il 15 luglio 1998 invece fu Sole, la sua compagna, a togliersi la vita nella comunità dove scontava la misura cautelare. Silvano venne invece processato in primo, secondo e terzo grado assistendo alla sua (e quindi loro) assoluzione.

Nel 2012, a seguito delle giornate del 27 maggio e 3 luglio 2011 – rispettivamente lo sgombero della Libera Repubblica della Maddalena e il giorno dell’assedio al cantiere di Chiomonte – andò in scena il maxiprocesso, un processo politico dove con 53 imputati fu tutto il Movimento No Tav a essere messo sotto accusa. Quasi un centinaio di udienze a ritmo serrato, tutte tenute nell’aula bunker del carcere Lorusso e Cotugno con testimoni reticenti da parte dell’accusa e intimidazioni continue ai testi della difesa. Furono quasi 200 gli anni chiesti come condanna complessiva ai No Tav e non si contano i risarcimenti. Inutile dire che il processo si concluse dopo i tre gradi di giudizio con alcune assoluzioni e le condanne dimezzate.

Nel 2013, la Corte d’Assise di Torino bocciò l’impianto accusatorio di terrorismo ai danni di quattro attivisti No Tav condannati per reati minori. Interessanti le motivazioni della sentenza: «In realtà non si ritiene che la programmazione emersa dal tenore delle telefonate oggetto di intercettazione, il numero di soggetti concorrenti, le armi proprie e improprie utilizzate fossero di per sé tali da incidere, anche solo potenzialmente, sulla volontà dello Stato di proseguire i lavori programmati», hanno spiegato i giudici.

L’assalto del 14 maggio 2013 «non era oggettivamente un contesto di particolare allarme e neppure l’azione posta in essere rivestiva una ‘natura’ tale da essere idonea a raggiungere la contestata finalità di terrorismo». Proseguono i giudici: «Pur senza voler minimizzare i problemi per l’ordine pubblico causati da queste inaccettabili manifestazioni non si può non riconoscere che in Val di Susa non si viva affatto una situazione di allarme da parte della popolazione e che nessuna delle manifestazioni violente sino ad ora compiute ha inciso, neppure potenzialmente, sugli organismi statali interessati alla realizzazione dell’opera».

Per tornare quindi alla vicenda attuale, la crociata nei confronti del Centro sociale torinese Askatasuna e del Movimento No Tav inizia nel 2009 per mano della solerte Digos, producendo un’indagine lunga 13 anni che diventa operativa in procura dal 2019. La cosiddetta «Operazione Sovrano», dopo centinaia di intercettazioni, migliaia di pagine, centinaia di agenti e decine di migliaia di euro spesi in cimici e software, ha portato sui tavoli del tribunale una quantità di intercettazioni inverosimile, estrapolate da ogni contesto e spesso frutto di ricostruzioni tendenziose da parte degli agenti, con il solo intento di rafforzare le tesi già elaborate in partenza. Perché in questa inchiesta, si vede proprio come Digos e Procura siano partiti dal reato di associazione sovversiva e abbiano poi fatto di tutto per sostanziarlo.

L’impianto accusatorio si regge sul calcolo statistico per cui all’interno delle mobilitazioni degli ultimi anni ci sarebbero alcuni soggetti ricorrenti aderenti al Centro sociale Askatasuna che orchestrano e sovradeterminano le scelte dei comitati valsusini e delle lotte cittadine.

Il primo Giudice per le indagini preliminari e i giudici del Riesame hanno però bocciato l’impianto accusatorio riconvertendo l’accusa in associazione semplice perché il gruppo incriminato sarebbe stato ritenuto privo delle finalità e delle capacità di sovvertire l’ordine costituito dello Stato, rivelando dunque la fragilità anche ontologica di tale accusa e rimodulando il focus sull’associazione a delinquere, più facilmente dimostrabile.

Inizia il processo e come di fatto ammettono i Pubblici ministeri Emanuela Pedrotta ed Emilio Gatti in una nelle prime udienze, vogliono fare un esperimento: vedere se, per la prima volta in un tribunale, si può dimostrare che la finalità di un’associazione a delinquere può essere la ripetizione di atti violenti di per sé. L’idea quasi lombrosiana che sottintende l’accusa è che nel caso di Askatasuna la politica sia un mezzo come un altro per fare violenza.

È evidente come dietro questa coltre di finalità criminali evanescenti individuate nell’indagine vi sia il tentativo di nascondere il vero senso della militanza politica, che per una Procura non è concepibile possa risiedere nell’anteporre il benessere collettivo ai propri interessi individuali. Ci dev’essere insomma «qualcosa dietro»: se non sono i soldi e non è il potere, bisogna tornare a concezioni della devianza di inizio Novecento. Ma per fare ciò non basta il Codice penale, bisogna uscire dalle aule dei tribunali e spargere fango a mezzo stampa.

Ma se l’obiettivo era tentare di isolare i compagni e le compagne che fanno parte del centro sociale Askatasuna e del Movimento No Tav mostrandoli come dei burattinai senza scrupoli, nella pratica questa è rimasta una pura fantasia mediatica per due motivi principali: in primo luogo le lotte sociali in città e in Valsusa coinvolgono un tessuto eterogeneo di militanti, attivisti e persone comuni molto più esteso e non riconducibile all’area politica dell’Autonomia vicina al Centro sociale. Il protagonismo all’interno delle mobilitazioni è ampio, diffuso e trasversale anche in questi tempi di riflusso generale, dalle assemblee, alle manifestazioni fino ai momenti di conflitto sociale. In secondo luogo, è chiaro a molti che nell’ultimo decennio se una «regia» delle tensioni di piazza c’è stata, questa è imputabile alla Questura e alla sua gestione repressiva e violenta della protesta.

È chiaro quindi che a Torino si gioca una partita più grande: a essere sotto processo non sono solo i militanti dell’Askatasuna e del Movimento No Tav ma le lotte sociali del nostro paese. Il tentativo, infatti, è quello di costruire un reato specifico contro il conflitto sociale.

La storia del Movimento No Tav ci parla però di altro: racconta di un popolo in movimento, per la giustizia sociale e in difesa della terra e dell’ambiente. Una lotta per un presente migliore, certo, ma soprattutto per il futuro di chi questo pianeta lo abiterà dopo di noi.

*Fasulin è il nome di battaglia della partigiana valsusina Ernestina Cugno, così soprannominata perché piccola e minuta. Ha dato il suo contributo attivo nella lotta di Resistenza al nazifascismo in Valsusa.  Riconosciuta e onorata con la medaglia di combattente partigiana.

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