L’autoritarismo è sempre più connotazione esplicita e implicita dei governi delle aree urbane a livello globale. Ciò avviene sulla base di alcuni elementi comuni: l’egemonia delle rendite immobiliari, la privatizzazione e militarizzazione dello spazio pubblico, la segregazione socioeconomica ed etnica, il deficit di partecipazione/coinvolgimento dei cittadini, l’uso della sostenibilità come strumento di esclusione.
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Il presente testo costituisce la premessa di una riflessione intrecciata, che coinvolge un sociologo urbano e un urbanista, riguardante il futuro delle nostre città e il loro ruolo all’interno dei processi democratici. Tale riflessione, che confluirà in un testo in gestazione, costituisce una apertura al dibattito e al confronto interdisciplinare con chi è interessato al futuro delle nostre città come luoghi dell’“abitare”. Affrontare, discutere e dialogare sulle varie modalità di “abitare il mondo” va inteso sia nella dimensione fisica, biologica, sia in quella sociale, economica e culturale. Il verbo abitare, nel suo significato etimologico derivante dal “habitare“, “habere“, di “avere in modo continuativo”, “avere consuetudine con un luogo” e dunque nel suo significato abituale di “luogo” e “dimora”, raffigura in maniera esemplare gli obiettivi prefissati di questa riflessione che intende legare città, democrazia, diritti, politiche, diseguaglianze, crisi ambientale, autoritarismo. Questo significa da un lato, riflettere sulla continuità della vita sociobiologica, politica, culturale nelle sue differenti articolazioni e trasformazioni; dall’altro mettere in rilievo le condizioni e le situazioni di vita nell’ottica dell’eguaglianza e della giustizia sociale e ambientale. Un obiettivo sempre più urgente da conseguire viste le tendenze verso modelli di controllo e di vita urbana che associano sempre più le politiche neoliberiste a pratiche orientate verso inedite forme di autoritarismo.
Infatti, il modello neoliberista che si è imposto nelle società urbane svela continuamente il suo carattere disumano e disumanizzante attraverso prassi di governo divenute egemoni e contro le quali appare difficile opporsi. Questo processo è l’esito di un’interazione storicamente determinata tra diverse variabili socio-economiche, culturali e urbanistiche ampiamente analizzate teoricamente ed empiricamente. L’ampiezza dei dibattiti e della letteratura sul tema è tale che non serviranno ulteriori approfondimenti al fine di comprenderne le ragioni sottostanti. Il nostro intento è quello di far emergere i tratti salienti così come sono stati individuati e discussi negli ultimi decenni. La nostra proposta si delinea sulla base di un lungo lavoro di ricerca condotto sulla città in termini di progettazione materiale e sociale focalizzandosi sull’asse delle disuguaglianze e della necessità di individuare quali possano essere le condizioni per una più ampia giustizia sociale, spaziale ed ecologica
Per introdurre tale concetto partiamo dall’assunto che le parole d’ordine del neoliberismo trovano dentro le “mura” della città il luogo ideale per assumere una loro concretezza e visibilità. L’ordine globale urbano ha imposto un regime che alimenta sempre più la competizione tra le distinte metropoli in cui gli indicatori economici e le rendite immobiliari ne costituiscono l’architrave. Appare del tutto evidente quanto la sottomissione della politica locale, attraverso la pressione delle politiche transnazionali, a questa cornice neoliberista sia un ulteriore elemento di accelerazione di tale dinamica. La reiterata enfasi sulla governance intesa come dimensione di potere orizzontale e, in certi casi, sulla partecipazione della cittadinanza a determinati processi decisionali risulta nella stragrande maggioranza dei casi una retorica priva di qualsiasi aspetto di reale democratizzazione o decentramento di potere. Le amministrazioni assumono, in alcuni casi, i contorni di soggetti politici deboli, non in grado di opporre qualche forma di resistenza all’impeto del valore di scambio rispetto al valore sociale delle problematiche urbane.
Per quanto siano diffusi i movimenti a livello planetario e siano organizzate le lotte dei gruppi esclusi contro il pensiero unico economicista dello sviluppo urbano e, infine, per quanto si siano registrate in talune città costituzioni incentrate sul diritto alla città gli effetti non sembrano invertire la rotta o, almeno, raffigurare potenzialmente una seria e valida alternativa. Qui non vogliamo suggerire una sorta di rassegnazione all’inevitabile destino. Assolutamente, anzi. Vi sono esempi di “ribellione” allo stato delle cose che hanno portato degli effetti importanti per il mutamento delle politiche di esclusione a livello locale; in seconda battuta, le diffuse lotte ambientali raffigurano un vettore decisivo nell’inversione di tendenza delle logiche fondiarie e della messa in discussione delle condizioni dell’attuale sviluppo urbano.
Le nostre riflessioni contribuiscono a definire un esito teorico specifico sulla città contemporanea, in riferimento alle grandi aree metropolitane nel Nord e nel Sud globale. Per quanto tra questi mondi urbani vi siano differenze sostanziali che rendono ardua qualsiasi comparazione, in primis l’assenza o meno di spazi di democrazia, oppure la specifica morfologia sociale e spaziale, tuttavia si possono rintracciare alcuni elementi comuni che definiscono a livello teorico l’autoritarismo quale connotazione esplicita e implicita dei governi delle aree urbane. Questo termine è utilizzato per evidenziare dinamiche che vanno contro i principi dell’eguaglianza, dell’equità e dell’inclusione le quali sono il frutto di una sempre più stretta connessione tra poteri politici ed élite economiche locali, nazionali e sovranazionali. Si manifesta l’idea di una rinnovata growth machine così come formulata negli anni ’70 da Harvey Molotch in riferimento alle politiche urbane promosse dalle élite politiche ed economiche nelle metropoli degli Stati Uniti.
Dalle nostre valutazioni e analisi riteniamo i seguenti criteri necessari e utili per individuare il crescente autoritarismo nelle politiche urbane: 1) egemonia delle rendite immobiliari e rigenerazione urbana diretta alle classi più ricche (gentrificazione); 2) privatizzazione o semi-privatizzazione dello spazio pubblico sovente determinato da progetti di rigenerazione urbana a cui si accompagna una crescente deregolamentazione degli investimenti immobiliari; 3) dinamiche di segregazione socioeconomica ed etnica dei gruppi vulnerabili (ghetto o favelas) e di auto-segregazione dell’élite (comunità chiuse), emersione di approcci segregazionisti nelle politiche di controllo dei processi migratori; 4) militarizzazione dello spazio pubblico e controllo eccessivo del comportamento dei gruppi marginali; 5) deficit di partecipazione/coinvolgimento nelle decisioni pubbliche sulla città da parte dei cittadini; 6) sostenibilità come strumento di esclusione (eco-gentrificazione) o processo di greenwashing che determina un ulteriore strumento di disuguaglianza rispetto alla crisi ecologica e al cambiamento climatico.
Ogni singolo criterio raffigura un pezzo del mosaico in cui è raffigurabile la progressiva riduzione degli spazi democratici, dei diritti di cittadinanza e l’indebolimento dei processi di emancipazione collettiva. Inoltre, alcuni di questi criteri tendono a sovrapporsi nelle attuali logiche cosiddette di rigenerazione urbana. La visione neoliberale della rigenerazione urbana si basa sul dominio dell’economia e sulla sua finanziarizzazione, a scapito della politica, mentre il cittadino diviene sempre più consumatore e cliente. In questi ultimi decenni la ricerca del consenso attraverso progetti urbani ed ecologici si basa su narrazioni e visualizzazioni che si configurano come retoriche eco-urbanistiche. L’entropia urbana che caratterizza il pianeta viene affrontata con progetti che si raffigurano come isole di ordine e bolle ecologiche rese possibili dallo sviluppo della tecnologia, altamente selettive, fisicamente delimitate e controllate da apparati di sicurezza. Queste operazioni di rigenerazione urbana “ecologica” fondate sulle appartenenze di “classe”, o di “censo”, sovente risultano orientate a una eco-gentrificazione sostenuta da fondi di investimento e grandi operatori immobiliari che, senza dichiararlo, rafforzano la “polarizzazione” sociale delle nostre città basata su pratiche escludenti.
Nelle politiche ambientali, così come nella promozione di visioni future di città eco-sostenibili, il ruolo della comunicazione è centrale perché indirizza scelte e costruisce opinioni. Oggi non vi è comunicazione pubblicitaria, finanziaria o azione di marketing che non esalti la sostenibilità. Non è difficile dimostrare che in realtà molti dei messaggi ecologici veicolati attraverso gli apparati comunicativi di massa sono basati su una manipolazione di dati e informazioni, e pertanto sono infondati o fuorvianti. Si potrebbe affermare che stiamo assistendo a un processo di sovra-informazione distorta che genera di fatto disinformazione. Che il dibattito sulla transizione ecologica vada disinquinato dal greenwashing comunicativo è ormai un tema ricorrente in molte inchieste giornalistiche e ricerche. Il dibattito pubblico dovrà necessariamente liberarsi dalle retoriche e ricondotto verso il tema cardine costituito dall’intreccio tra il contrasto ai cambiamenti climatici e la lotta alle disuguaglianze.
Il percorso di ricerca qui individuato significa rintracciare il filo rosso che tiene insieme tali caratteri che interagiscono in un quadro logicamente coerente. L’intento è di stabilire e mostrare le contraddizioni che si possono intravvedere all’interno del modello autoritario per comprendere le possibilità che si aprono potenzialmente in grado di metterlo in crisi. Non vi sono ricette, non vi sono soluzioni adattabili ai differenti contesti e alla variabilità delle condizioni. Il nostro lavoro ha un duplice significato: da un lato, rappresenta un tentativo di sintetizzare efficacemente la vasta riflessione sul tema, compito non semplice ma oltremodo necessario poiché il dibattito nel corso del tempo si è dilatato; dall’altro, si muove sul piano dell’urgenza perché siamo convinti che la situazione si stia aggravando e che le contromisure diventino complicate da costruire nell’immediato futuro se non si accelera il processo. Inoltre, siamo coscienti che ciò che abbiamo individuato quali criteri della città autoritaria possono essere limitati o, viceversa, non ritenuti sufficientemente efficaci. Ciò che ci sembra importante è, comunque, aprire una discussione e aprire un orizzonte di azione dato che oramai la città autoritaria si è imposta e s’impone in una logica di potere, la quale tende a essere recepita e accettata quale esclusivo motore di crescita economica fondata sulla competitività e quale inevitabile destino da cui diviene impossibile l’uscita verso una praticabile alternativa di giustizia sociale, spaziale ed ecologica.
Le sintetiche riflessioni qui riportate non sono certe esaustive, riteniamo possano tuttavia offrire un’opportunità per discutere in maniera aperta dell’idea di città autoritaria. Il senso di questa apertura è relativo alle eventuali critiche, osservazioni ma anche alla possibilità di integrare il ragionamento, ampliarlo con altri sguardi e narrazioni. Siamo posti di fronte a una forte crisi dell’azione politica emancipatrice e degli assetti democratici, dove essi sono esistenti, i quali appaiono svuotati nella loro chance di garantire l’insieme dei diritti alla città nella loro articolazione. Prendere posizione e alimentare circuiti virtuosi di cittadinanza è, ancora una volta una necessità inderogabile.
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