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Un nuovo nemico da delegittimare e criminalizzare: le università

Se studentesse e studenti contestano e prendono parola per denunciare il patriarcato, manifestare contro il genocidio a Gaza e le politiche coloniali di Israele o contro il capitalismo fossile sono subito bollati come “intolleranti”, “violenti”, “antisemiti”. Dimenticando che la costruzione di un pensiero critico, fatto di dubbi, di ragionamenti, di ricerca è il primo compito dell’Università.

di Alessandra Algostino da Volere la Luna

Studentesse e studenti dei collettivi universitari prendono la parola, denunciano il patriarcato come sistema, manifestano contro il genocidio a Gaza e le politiche coloniali di Israele, chiedono la fine del capitalismo fossile; rivendicano voce sul presente e sul futuro. Immediata è la risposta: delegittimazione e criminalizzazione (sono “intolleranti”, “violenti”, “antisemiti”). C’è un nuovo nemico da delegittimare e criminalizzare: le università? Anche chi insegna e lavora in università riceve lo stesso trattamento, se osa chiedere per Gaza e il popolo palestinese il cessate il fuoco e il rispetto del diritto internazionale. Neanche gli organi accademici sono risparmiati: emblematici sono gli attacchi scomposti al senato accademico dell’università di Torino per la mozione sulla non opportunità di partecipare al bando del Ministero degli Affari Esteri sulla cooperazione industriale, scientifica e tecnologica con Israele, vista la situazione a Gaza.

Certo, resta che il diritto di critica vale per tutti, anche per coloro che, saldamente ancorati alla cultura egemone, obiettano a chi protesta e a chi vota mozioni non allineate, ma ora si assiste ad un rogo mediatico. Le posizioni dei collettivi e del senato accademico dell’università di Torino, per restare agli ultimi fatti, non sono solo oggetto di discussione ma del tentativo di privarle di legittimità, escluderle dal novero di quanto può essere detto, espellerle dallo spazio democratico come “non democratiche”. Le reazioni sono spropositate, nel loro rapporto con la realtà, e sono violente, nella delegittimazione, nell’esclusione e nella criminalizzazione che veicolano.

Sono atteggiamenti pericolosamente in linea con la frenesia bellica, di un paese, un’Europa, che si armano, culturalmente e materialmente: è la logica binaria della dicotomia amico-nemico, che criminalizza il dissenso e giustifica e insieme fonda la deriva autoritaria. È la democrazia decidente e plebiscitaria che si sovrappone di fatto, in attesa di formalizzare il passaggio con la riforma sul premierato, alla democrazia pluralista e conflittuale. È lo stesso discorso, su un altro piano, che normalizza, attraverso la disumanizzazione, gli otto morti in mare al giorno del 2023 o il “trattamento” del disagio sociale con l’allontanamento in nome del decoro.

Se poi guardiamo al merito, appiano le falsificazioni e i capovolgimenti, assunti apoditticamente e amplificati da un’informazione arruolata. “Antisemitismo dilagante”: il giudizio della Presidente del Consiglio viene riportato in maniera piana, alla pari di un dato indiscusso; ogni volta che ciò avviene si consolida e cristallizza il falso. E allora occorre ribadire, contro l’ignoranza, la mistificazione, la strumentalizzazione, l’ovvio: criticare il Governo di Israele, le sue politiche, ragionare di colonialismo, apartheid e genocidio, non è essere antisemiti. Viviamo in un mondo alla rovescia, dove chiedere il rispetto del diritto internazionale è sovversivo, dove ragionare di principio pacifista è un attentato ai valori democratici, dove manifestare è una concessione, dove essere antifascisti è una colpa.

Ma torniamo all’università. Il senso dell’università, anche qui ripetendo quanto dovrebbe essere scontato, non è sfornare laureati pronti – proni? – al mercato del lavoro (o alla propria colpevolizzazione se non vi trovano posto), ma contribuire ad un percorso costellato di dubbi, ragionamenti, ricerca, in una parola alla costruzione di pensiero critico. Autonomia universitaria non significa autoreferenzialità e competitività fra atenei ma concretizzazione dell’articolo 33 della Costituzione laddove sancisce che «l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento»; affermazione che a sua volta si connette alla promozione di una cultura, aperta e plurale, coerente con una democrazia fondata sul pieno sviluppo di ciascuna persona e sulla partecipazione effettiva, in una prospettiva trasformatrice.

A fronte del titolo di apertura de La Stampa del 21 marzo, “Università senza pace”, viene da esclamare “per fortuna!”. Grazie alle studentesse e agli studenti che non accettano una pace intesa come “pacificazione” nel senso del TINA (There Is No Alternative), che spezzano la gabbia di acquiescenza e ignavia, che riflettono, discutono e contestano, ricordando all’università il suo senso.

Decenni di aziendalizzazione e privatizzazione, asservimento dei percorsi di studio al mercato del lavoro, ricerca condizionata, meritocrazia, precarietà a oltranza, burocrazia asfissiante, non hanno spento del tutto il desiderio di discussione, di critica, di trasformazione che proviene dalle università. Non è intolleranza, ma dissenso e partecipazione, per rivendicare una alternativa all’esistente.

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