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Un normale eccesso di zelo. A proposito di api, pace e libertà

Multare un apicultore per una scritta pacifista esposta sul banchetto del mercato non è solo un eccesso di zelo delle forze dell’ordine. E il fatto che così sia interpretato da molti media è fonte di ulteriore preoccupazione. Perché mostra l’affacciarsi di un’idea di “normalità” che tutto accetta e metabolizza, anche l’assurdo e l’indicibile: in attesa della normalizzazione istituzionale che ci aspetta con la “legge sicurezza”.

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I fatti sono noti. Per chi si fosse distratto un attimo, un breve riassunto: il 14 ottobre a Desio, nella ricca Brianza, un apicoltore espone sul suo banchetto al mercato uno striscione con scritto: “Stop bombing Gaza – stop genocide”. Qualche solerte cittadino non gradisce il messaggio e chiama i carabinieri che contestano all’apicoltore una “propaganda politica non autorizzata”. Lui si rifiuta di rimuovere lo striscione, i carabinieri chiamano un superiore, il reato viene derubricato seduta stante e punito con 430 euro per violazione di un articolo del codice della strada: lo striscione distrae gli automobilisti. Non è una bufala. Che sia un caso di ordinaria follia? O di eccesso di zelo che nulla a che fare con la svolta autoritaria e repressiva che colpisce in misura sempre crescente il dissenso e annulla gli spazi di democrazia? Con quella curva che si impennerà paurosamente se verrà approvato definitivamente il disegno di legge sicurezza già approvato alla Camera e in discussione al Senato?

Un articolo de La Stampa uscito prontamente (15 ottobre, p. 15) ci tranquillizza. Un’intera pagina per fugare ogni dubbio. Chi avesse provato una sia pur piccola inquietudine si rasserena. L’articolo, nel suo piccolo (molto piccolo in verità), è comunque indicativo dei messaggi veicolati dai media sui grandi temi di attualità: la guerra che c’è e il sistema sanitario nazionale che quasi non c’è più, l’emergenza climatica che c’è e le responsabilità politiche che non ci sono, il lavoro che quando c’è è un lusso e la tutela dei diritti che è solo un lontano ricordo. E via elencando.

Propongo una lettura ragionata dell’articolo in cui la giornalista esordisce con una prima certezza «Siamo certi che sia solo eccesso di zelo» e si dice convinta che all’apicoltore «arriveranno le scuse». Non manca di argomentare la sua certezza: «Mica siamo a Kabul. Da noi ogni cosa che non sia un insulto o una minaccia si può dire, soprattutto se si dice a volto scoperto, senza bastoni, e per di più accompagnata dalla gentilezza del miele». Suggestiva l’immagine idilliaca delle api a volto scoperto che manifestano senza bastoni! Dopo aver ricordato che «viviamo nell’Italia dell’articolo 21 in cui tutti hanno il diritto di manifestare ecc. ecc» e che «siamo l’Italia che ama le api e gli apicoltori», la giornalista mette in guardia sul fatto che le istituzioni al massimo livello risulterebbero danneggiate da questo eccesso di zelo «irritante perché affoga nei verbali di caserma gli ultimi sprazzi di sogno personale, giusto o sbagliato che sia, chissà come sopravvissuti alla cultura dei social e dei reality». Ecco, brava, un accenno critico ai reality non guasta. Anche se la frase prepara soltanto il terreno per arrivare al punto. L’apicoltore «con la sua cooperativa tra i due rami del Lago di Como, la sua scelta di vita inconsueta – le api come simbolo di amore per il territorio e le relazioni umane – è uno degli imprevedibili romantici prodotti da una società che va da un’altra parte. Erano milioni ai tempi di Seattle e della Via Campesina, incendiarono le piazze no-global e poi sparirono, sconfitti da modelli più forti di loro. Non basta? Pure la multa agli ultimi giapponesi di quel tipo di scelta?».

Vada per il garbato accenno al Manzoni ma chissà se l’apicoltore si riconosce nell’immagine? Rifiutandosi di rimuovere lo striscione ha sostenuto che la frase non offende nessuno e ha chiarito che il suo è «un messaggio non di odio, ma l’invocazione per una pace immediata e una ‘giustizia giusta’»: non pare si riconosca nell’immagine dell’ultimo giapponese di cui narra la leggenda, quello che dopo trent’anni dalla fine della seconda guerra mondiale non se n’era ancora accorto. Dalle sue parole si direbbe piuttosto che si sente più vicino al popolo di Seattle e di Via Campesina, al popolo che a Genova nel 2001 diceva che “un altro mondo è possibile». O no? La giornalista de La Stampa però non ha dubbi: no, è semplicemente un inguaribile romantico sperduto nei campi che parla alle api come San Francesco parlava agli uccelli. L’importante è rassicurare i lettori ai quali, non sia mai, potrebbe saltare in mente che anche le api siano pacifiste/comuniste/sovversive.

La colta giornalista si guarda bene dal mettere in evidenza che per il multato «non c’è giustizia ambientale senza giustizia sociale» e ricorda che «per ripulire Gaza ci vorranno anni». In verità la dichiarazione è riportata in un trafiletto nella stessa pagina ma, nella fretta di suggerire una collocazione dell’apicoltore più coerente con l’immagine proposta, la cosa viene ignorata. L’articolo si avvia alla conclusione segnalando il «danno reputazione» (sottinteso alle istituzioni di alto livello) lasciando intendere che una mela marcia non fa primavera, come le rondini. Prosegue poi con una forte denuncia: «Una istituzione è forte quando usa la mano pesante con i più grossi, non con i piccoli, gli isolati, quelli che lanciano un messaggio con un cartello in un mercatino agricolo». E fin qui, salvo alcuni dettagli, tutto bene, come diceva quell’incosciente che precipitando dall’ultimo piano di un grattacielo era arrivato appena al secondo piano.

Ma poi la denuncia prende la forma di una condanna senza appello: «E di grandi e grossi nella questione delle guerre ce ne sono tantissimi, parlano di odio, ritorsione e annientamento a milioni di persone. Attraverso i social incitano all’antisemitismo e alla violenza, diffondono notizie false, talvolta lavorano al servizio di autentiche centrali di disinformazione che minacciano le nostre democrazie». Capito? E noi che credevamo che nella “questione” delle guerre i “grandi e i grossi” fossero da ricercare altrove, magari nel business delle armi, nell’ansia di dominio geopolitico degli Stati, nella volontà di stabilire nuovi equilibri nel mondo dell’economia e della finanza a livello globale, nei palazzi dei governi che se ne infischiano delle centinaia di migliaia di morti e della distruzione delle città, se ne infischiano della desertificazione di ampie aree abitate causate direttamente dalle guerre… Siamo tutti giapponesi? L’articolo finalmente si conclude, per chi nutrisse ancora dubbi, con queste testuali parole: «Sì, siamo sicuri che sia solo eccesso di zelo. Altri motivi non vengono in mente». In altre parole: state tranquilli, non è successo niente. È tutto normale.

Fin qui l’articolo de La Stampa. Si dirà: sì, vabbe’, l’autrice ha espresso la sua opinione, che male c’è? Tutto normale insomma.

Provo a fare un salto e guardare ad altro. Per fortuna i giovani guardano poco o niente la TV. Non vale per i bambini i cui genitori ogni sera, seduti a tavola per la cena, si ostinano a seguire il telegiornale (uno qualsiasi). Questi bambini da più di due anni e mezzo vedono scorrere sullo schermo, tutti i giorni, la “normalità” di immagini di città distrutte, macerie fumanti, feriti, sangue, carri armati e soldati che avanzano in terre desolate senza un prato verde ecc. Sono sicuramente attratti dalle tante riprese che mostrano piccoli bersagli visti attraverso il mirino di un sistema di puntamento di un aereo militare o un drone: poi una grande fiammata, una nuvola di polvere e il bersaglio non c’è più. Le prime volte i bambini hanno paura, chiedono perché. È un videogioco? No, ma con il passare dei giorni non fa molta differenza, tanto succede lontano e la cosa diventa normale. Per molti genitori non è poi molto diverso, mentre i bambini si distraggono e sognano un altro videogioco, i genitori si commuovono di fronte ai racconti dei tanti giornalisti embedded. Poi finisce lì. Si va verso un conflitto globale? Boh, vedremo. È normale. Terribile parola. Ci si abitua a tutto.

Anche su molto altro ci si abitua, è normale. In un articolo pubblicato su questo sito pochi giorni fa sul collasso del Servizio Sanitario Nazionale vengono riportati i dati di un recentissimo rapporto della Fondazione Gimbe. Definire i dati allarmanti non rende giustizia alla realtà. Fa certo impressione scoprire che ormai 4,5 milioni di persone hanno rinunciato alle cure nel 2023, che alla sanità pubblica sono stati sottratti 37 miliardi tra il 2010 e il 2019 (tra parentesi: in quegli anni non c’era il Governo Meloni anche se poi le cose sono andate peggio). Fa impressione, ma passa in fretta, è normale. Quando poi capita di toccare con mano il disastro, dovendo, ad esempio, prenotare un’ecografia che viene fissata tra un anno l’indignazione e la rabbia si impossessano di chi non ha un’assicurazione e può ricorrere tranquillamente alle strutture private. Capita che si indigni una volta, due volte e poi tutto diventa normale.

Nello stesso giorno in cui l’apicoltore della Brianza veniva punito per aver organizzato una manifestazione non autorizzata con il concorso delle sue api si è tenuto a Torino un incontro promosso dal Coordinamento Antifascista Torino e dall’Anpi “No allo stato di polizia, contro il disegno di legge sicurezza”. Non si è parlato di come viene prodotto il miele per usarlo poi come arma impropria nei mercati ma si è parlato comunque di eccesso di zelo, di prevenzione e repressione del dissenso. Gli articoli del disegno di legge in discussione al Senato ci portano indietro di decenni individuando nuovi reati, moltiplicando pene per quelli esistenti e considerando aggravanti quelle che il codice Rocco considerava attenuanti «l’avere agito per suggestione di una folla in tumulto» (norma tutt’ora valida). Se passerà il disegno di legge succederà, tra le altre cose, che per chi commette il reato di resistenza a pubblico ufficiale commessa «al fine di impedire la realizzazione di un’opera pubblica o di un’infrastruttura strategica» la pena potrà essere aumentata fino a venti (!) anni di reclusione. È normale, no? I No Tav, e non solo loro, sono avvisati.

Ma questo è solo un esempio, è il disegno di legge nel suo complesso che imprime una profonda curvatura autoritaria al governo della società. La resistenza passiva diventerà reato e nelle carceri i detenuti che rifiuteranno il cibo come forma di protesta rischieranno fino a otto (!) anni di reclusione. E ancora: l’occupazione di immobili verrà punita fino a sette anni e verrà punito anche chi incoraggia le occupazioni: i movimenti per la casa sono avvisati, l’emergenza abitativa avrà la risposta che merita. Il blocco stradale «realizzato con la mera interposizione del corpo» verrà punito con la reclusione fino a due anni. Per intenderci: sono compresi anche i dimostranti pacifici che stazionano in gruppo in strada, di fronte ai cancelli di una fabbrica o all’ingresso di una scuola. Lavoratori, studenti, attivisti per il clima sono avvisati. È avvisato anche chi vende miele al mercato, magari parlando di guerre con un cliente.

È normale tutto ciò? I solerti carabinieri di Desio sono stati più realisti del re e si son messi forse avanti con il lavoro? Il convegno di Torino si è chiuso con un invito del relatore al foltissimo pubblico: se il disegno di legge sicurezza diventerà legge scendiamo subito in piazza e disobbediamo in massa. Vogliamo raccogliere l’invito?

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