Il decreto legge sicurezza “bis” è un provvedimento odioso in contrasto con le norme internazionali, la Costituzione e i più elementari principi di umanità. Entro il 13 agosto dovrà essere convertito in legge dal parlamento. “Un voto che potrà fare la differenza tra la vita o la morte di tante persone”, scrive Fulvio Vassallo della della Clinica legale per i diritti umani dell’Università di Palermo. Mentre si costituiscono gruppi di assistenza e difesa legale per tutti coloro che saranno colpiti dalle eterogenee disposizioni del provvedimento, comincia una battaglia politica e sociale che ha bisogno del sostegno di tanti e tante
Subito dopo la pubblicazione del Decreto legge sicurezza bis (D.L. 53/2019) nella Gazzetta Ufficiale del 14 giugno 2019 le autorità di governo hanno utilizzato le norme, gli articoli 1 e 2 del decreto, per dare una copertura legislativa alle direttive/diffide del ministro dell’interno, con cui da mesi si vietano alle navi delle ONG, che hanno soccorso naufraghi in acque internazionali, l’ingresso nelle acque territoriali e dunque nei porti italiani. Il ministro dell’interno vorrebbe addirittura imporre la riconsegna alle autorità libiche di tutti i naufraghi soccorsi in acque internazionali. Un ordine illegittimo che non può essere rispettato.
Non sarà certo un decreto legge che consentirà prassi vietate a livello internazionale, oltre che in contrasto con i più elementari principi di umanità. Anche la portavoce della Commissione Europea Nathasha Berhaud, già prima della denuncia di un gruppo di giuristi al Tribunale penale internazionale, aveva escluso che la Libia, nelle sue diverse articolazioni territoriali, potesse essere considerata come un luogo sicuro di sbarco. Come non sono luoghi sicuri per i migranti i paesi a sud della libia come il Niger, sul quale si sta puntando molto per impedire che i migranti attraversino il Mediterraneo.
In assenza dei requisiti di urgenza e di specificità previsti dalla Costituzione per i decreti legge è subito apparso evidente come lo scopo immediato della nuova normativa introdotta con il Decreto legge n.53/2019 fosse il respingimento delle navi umanitarie e l’inasprimento delle sanzioni contro chi si rende “colpevole” di soccorso.
Il ricorso al divieto di ingresso nelle acque territoriali, affermato solo nei confronti delle piccole navi appartenenti alle ONG – in base al richiamo surrettizio all’art. 19 comma 2 della Convenzione UNCLOS – permette la legittimazione di misure di respingimento collettivo che sono vietate dalle Convenzioni internazionali, e appare potenzialmente lesivo dell’effettivo riconoscimento del diritto di asilo, garantito dall’articolo 10 della Costituzione (in misura più ampia di quanto previsto dalla Convenzione di Ginevra sui rifugiati e dalle Direttive in materia di protezione internazionale adottate dall’Unione Europea). In questo senso il decreto legge sicurezza “bis”, appare in contrasto con la Costituzione italiana laddove si prevede che il ministero dell’interno possa impedire, e sanzionare attraverso i prefetti, l’ingresso nelle acque territoriali, e dunque in un porto sicuro in Italia, di imbarcazioni private che abbiano svolto operazioni SAR (di ricerca e salvataggio) in acque internazionali. Si assiste soprattutto a un ennesimo tentativo di svuotamento della portata effettiva degli articoli 10, 11 e 117 della Costituzione che impongono il rispetto di norme inderogabili derivanti dal diritto internazionale.
Come effetto immediato dell’entrata in vigore del Decreto Legge n.53/2019, si stanno bloccando in zona contigua alle acque territoriali italiane, a sud di Lampedusa, 43 persone, bisognose di cure mediche urgenti, tra queste anche almeno un minore di età. Un risultato conseguito dal governo in contrasto con le norme sulla efficacia della legge nel tempo, in quanto il decreto legge n.53/2019 contiene sanzioni penali-amministrative, come la confisca della nave soccorritrice, che non possono essere applicate con effetto retroattivo. Il soccorso in mare operato dalla Sea Watch e la richiesta di ingresso in un porto sicuro in Italia si erano verificati prima dell’entrata in vigore del provvedimento, adottato dal Consiglio dei ministri sotto la spinta del ministro dell’interno che voleva avere una copertura legislativa per le sue attività di indirizzo politico-amministrativo.
Si vorrebbe assimilare il soccorso in mare al trasporto di “clandestini”. Secondo l’UNHCR invece, ”in mare non è possibile una valutazione formale dello status di rifugiato o di richiedente asilo (in virtù del Protocollo di Palermo del 2000 contro la tratta di migranti; del Reg. EU 2014/656 per le operazioni Frontex; del d.lgs 286/’98 – T.U. immigrazione e del Decreto Ministeriale 14 luglio 2003). Tutte le imbarcazioni coinvolte in operazioni SAR hanno come priorità il soccorso e il trasporto in un “luogo sicuro” dei migranti raccolti in mare e le azioni di soccorso prescindono dallo status giuridico delle persone. Il rifiuto, aprioristico e indistinto, di un governo, peggio di un singolo mnistro, di far approdare la nave in porto comporta l’impossibilità di valutare le singole situazioni delle persone a bordo, e viola il divieto di espulsioni collettive previsto dall’art. 4 del Protocollo n. 4 alla CEDU e dall’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. L’invito a rivolgere la prua verso un altro stato (ad esempio Malta o la Tunisia) rivolto a una nave che ha effettuato un soccorso e che si trova all’interno della zona contigua alle acque territoriali di un paese, dunque già sottoposto a una giuirisdizione nazionale, viola il diritto internazionale e priva le persone dei diritti di chiedere asilo e di fare valere una difesa effettiva, sanciti dagli articoli 10 e 24 della Costituzione italiana.
Già cinque mesi fa l’Olanda aveva risposto picche alla richiesta del ministro dell’interno italiano. E la procura di Catania, dopo quella di Siracusa, nulla aveva eccepito sulle attività di ricerca e salvataggio operate in quella occasione da Sea Watch 3. Adesso il Viminale riprova a contrattare con l’Olanda, sulla pelle di persone bloccate in alto mare da dieci giorni, mentre la stessa Procura di Catania, nel provvedimento di archiviazione per il caso Sea Watch di gennaio sembra tornare a rilevare un comportamento “autonomo” tenuto dalla stessa Sea Watch nei soccorsi operati senza obbedire all’ordine illegittimo di riconsegnare i naufraghi ai libici. Esattamente le stesse parole pronunciate da Salvini e inserite nella più recente diffida a fare ingresso nelle acque territoriali, rivolta alla Sea Watch. Come al solito si possono attendere altre denunce per chi ha salvato vite umane.
Il tentativo del ministro dell’interno, che chiama in causa il governo olandese, per imporre alla Sea Watch obbedienza a un divieto di ingresso che nel diritto internazionale non avrebbe alcuna base legale, si scontra con il divieto di respingimento sancito dall’art.33 della Convenzione di Ginevra sui rifugiati e con le norme delle Convenzioni di diritto del mare, che stabiliscono precisi obblighi di soccorso e di indicazione dei porto di sbarco sicuro allo stato costiero, quando la nave soccorritrice si trova soggetta alla sua giurisdizione esclusiva. Come si verifica nella zona contigua alle acque territoriali italiane (12-24 miglia dalla costa di Lampedusa) e come è confermato dalla ingiunzione notificata alcuni gorni fa, proprio in quella zona, all’equipaggio della Sea Watch raggiunto ed accostato in piena notte da un mezzo della Guardia di finanza.
Si deve quindi consentire al più presto lo sbarco a terra dei naufraghi ancora a bordo della Sea Watch 3, ferma restando, ove ne ricorrano i presupposti, la potestà sovrana dello stato di eseguire, nel rispetto delle Convenzioni internazionali misure di respingimento e di espulsione, salvo che per i minori, i richiedenti protezione, e altre persone in condizioni di vulnerabilità. Non lo “impongono” le ONG, ma le norme interne e internazionali che anche il ministro dell’interno deve rispettare. Se non si vuole fare entrare la nave, lo stato italiano è ormai comunque obbligato a fornire ai naufraghi nei tempi più rapidi possibile, un porto sicuro di sbarco. Come sta facendo persino Malta in queste ultime settimane, nei soccorsi che riesce ad operare con i propri limitati mezzi.
Se è vero che, in base alla Convenzione UNCLOS lo stato può comunque impedire l’ingresso nei propri porti a una nave sospettata di trasportare migranti irregolari (art. 19, comma 2) è altrettanto da considerare che, se uno Stato respinge una imbarcazione carica di naufraghi soccorsi in acque internazionali, senza controllare se a bordo vi siano dei richiedenti asilo o soggetti non respingibili, o altrimenti inespellibili, come donne abusate e/o in stato di gravidanza e minori, e senza esaminare se essi possiedano i requisiti per il riconoscimento dello status di rifugiato, commette una grave violazione del principio di non respingimento sancito dall’art. 33 par. 1 della Convenzione del 1951, se gli spazi geografici (Stati terzi o alto mare) verso cui la nave è respinta non offrono garanzie sufficienti per l’incolumità dei migranti o per il riconoscimento dei loro diritti fondamentali. Sono note da tempo le gravi inadempienze rispetto alla Convenzione di Ginevra della Tunisia, ed è l’UNHCR che esclude che la Tunisia possa garantire luoghi sicuri di sbarco per i naufraghi raccolti in mare dopo essere fuggiti dalla Libia. Come è altrettanto nota la posizione di Malta, che non ha firmato gli emendamenti apportati nel 2004 alle convenzioni SAR e Solas, e dunque non garantisce porti di sbarco sicuri ai naufraghi soccorsi all’interno della sua vastissima zona SAR. Come del resto è altrettanto nota la posizione di diverse agenzie delle Nazioni Unite e della Commissione Europea, che escludono che la Libia, o qualsiasi entità territoriale nella quale ormai risulta frammentata, possa garantire un “place of safety“. A livello internazionale, dunque, è unanime la richiesta al governo italiano di fare sbarcare al più presto i naufraghi raccolti dalla Sea Watch.
Respingere una nave che ha effettuato un soccorso (SAR) verso l’alto mare, con la certezza che nessuno dei paesi confinanti (come aree SAR) provvederà al soccorso tempestivo dei naufraghi, mette a rischio la vita di persone innocenti, già vittime di gravi abusi in Libia, e corrisponde a una grave lesione del diritto internazionale, oltre che ad un atto disumano, come rileva Amnesty International, che nessuna norma di legge potrà mai ratificare. Le disposizioni del decreto sicurezza che vengono adesso applicate contro la Sea Watch 3 e i naufraghi intrappolati a bordo della nave, potranno essere censurate dalla Corte Costituzionale e dai tribunali internazionali. Per non parlare della possibile configurazione di reati diversi, dall’omissione di soccorso fino a quei reati che potrebbero ricorrere nel caso siano ancora presenti tra i naufraghi “respinti” in alto mare minori non accomapagnati.
Non si può pensare di proseguire oltre con le prassi dei ”porti chiusi”, che poi non sono affatto chiusi perché gli sbarchi di migranti provenienti dall’inferno libico proseguono comunque, malgrado la ripresa delle operazioni di intercettazione delle cd. “navi madre” in acque internazionali.La macchina dell’odio non si ferma mai. Vogliono che i naufraghi vengano abbandonati in mare o intercettati dalla sedicente guardia costiera “libica”, per essere rigettati nei centri di detenzione, nelle mani di torturatori ed estortori. Per questo devono bloccare le Ong che continuano a testimoniare e a rilanciare gli allarmi, che poi costringono gli stati a intervenire. Prima si inizia con la disinformazione, poi si prosegue con le denunce.
La gestione delle frontiere marittime è una questione che nessuno stato può affrontare da solo, sul piano interno, a colpi di ordinanze e decreti legge, senza rapporti di collaborazione con i paesi titolari delle zone SAR (ricerca e salvataggio) limitrofe a quella di cui è responsabile. La collaborazione tra stati deve essere improntata al rispetto di diritti umani e alla salvaguardia assoluta della vita umana in mare, senza privilegiare invece operazioni di respingimento delegate ad autorità di paesi, come la Libia, che non rispettano le Convenzioni internazionali.
Le conseguenze mortali delle prassi operative imposte (anche alla nostra Guardia costiera) dal governo italiano, trovano riscontro nella crescita esponenziale delle vittime, in misura percentuale, a fronte della riduzione delle partenze dalla Libia. Per bloccare questo stillicidio di vittime e per garantire con la massima tempestività un luogo di sbarco sicuro, come imposto dalle Convenzioni internazionali, occorre che la giurisdizione nazionale, soprattutto la magistratura penale, se non quella amministrativa, ritorni a esercitare un ruolo di controllo sugli atti del ministro dell’interno, senza decisioni interocutorie che ne assecondino le finalità politiche. Non mancheranno i ricorsi alla giustizia internazionale, ma non si può contare soltanto sui giudici della Corte Europea dei diritti dell’Uomo o della Corte di Giustizia dell’Unione Europea. Si dovrà contrastare ancora la tendenza di alcuni mezzi di informazione a travisare sistematicamente le decisioni della giurisprudenza riguardo ai soccorsi in mare operati dalle ONG.
A parte una sparuta pattuglia di deputati e senatori solidali, non si comprende chi, nelle sedi istituzionali, riuscirà a fare davvero opposizione a queste scelte disumane. Sarà adesso molto importante una piena assunzione di responsabilità da parte dei parlamentari alla Camera e al Senato. Entro il 13 agosto il Decreto legge sicurezza “bis” dovrà essere convertito in legge dal Parlamento, se entro quella data non sarà pubblicata la legge di conversione il provvedimento potrebbe decadere per intero. Occorre una mobilitazione diffusa che segua giorno per giorno le diverse fasi di conversione del decreto legge n.53/2019, a partire dalla sua calendarizzazione in Aula e dal passaggio in Commissione Affari Costituzionali. Ciascun membro delle camere sarà responsabile del voto che esprime, e sarà ricordato per questo. Un voto che potrà fare la differenza tra la vita o la morte di tante persone.
Il parlamento non può rinunciare alle sue prerogative istituzionali e approvare a scatola chiusa un provvedimento che in diversi punti appare in contrasto con norme costituzionali. Sarà anche da verificare che non si ritorni a quella logica di scambio che ha caratterizzato il voto al senato sulla richiesta di autorizzazione a procedere contro il ministro dell’interno sul caso Diciotti.
L’attuazione del principio di legalità non è decisa in base ai disegni politici di un partito o con atti di indirizzo dell’esecutivo rivolti alla magistratura. Lo afferma la Costituzione che sancisce il principio democratico basato sulla separazione dei poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario). Sarà questo il patrimonio di democrazia che dovrà essere difeso negli spazi di frontiera e nelle aule parlamentari. Ne deve essere primo garante il Presidente della Repubblica, sarà chiamata a intervenire la Corte Costituzionale, nessuno potrà ritenersi sottratto al controllo degli organismi internazionali.
In merito al decreto legge sicurezza “bis” e ai suoi primi profili applicativi, si è svolto nei giorni scorsi a Palermo, presso il Dipartimento di Giurisprudenza, un Seminario di studi ” Decreto Sicurezza Bis, Legalità Internazionale e Stato di Diritto“, che ha segnato un passaggio per la costituzione di gruppi di assistenza e difesa legale in favore di tutti coloro che saranno colpiti dalle eterogenee disposizioni contenute nel Decreto legge n.53/2019. Dagli operatori umanitari e dai cittadini solidali che soccorrono persone in mare fino a tutte quelle persone che esercitano il diritto di manifestare e di riunirsi esercitando le libertà garantite dalla Costituzione.
Fulvio Vassallo Paleologo – Avvocato, componente del Collegio del Dottorato in “Diritti umani: evoluzione, tutela, limiti”, presso il Dipartimento di Scienze giuridiche dell’Università di Palermo. È componente della Clinica legale per i diritti umani (CLEDU) dell’Università di Palermo
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