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Un prigioniero politico palestinese in sciopero della fame da tre mesi e ricoverato in ospedale – sarebbe stato riportato in carcere

Arrestato in Cisgiordania in luglio (in quanto sospettato di legami con la Jihad Islamica) e detenuto in Israele, Maher Al-Akhras (49 anni) era entrato in sciopero della fame per protestare contro la sua “detenzione amministrativa”. Ossia contro un dispositivo giuridicamente controverso che – come minimo – viola il diritto a un processo equo. Istituito ad hoc da Israele, viene applicato per arrestare persone – generalmente palestinesi – senza accuse specifiche (tantomeno prove) e senza un processo e mantenerle in carcere per sei mesi (rinnovabili oltretutto). Al-Akhras rifiuta il cibo ormai da oltre novanta giorni e ovviamente le sue condizioni si vanno deteriorando.

Al momento sono considerate “alquanto critiche”. Nonostante ciò,  il 23 ottobre sarebbe stato prelevato dall’ospedale Kaplan di Tel Aviv  (dove era ricoverato dai primi di settembre) e riportato in un carcere (sempre nei pressi di Tel Aviv). La notizia è stata data congiuntamente dalla sua avvocata e dal Club dei Prigionieri Palestinesi (una ong locale che si sta interessando della sua situazione). Una prima conferma del trasferimento è venuta da Yitzhak Goralov, portavoce dell’autorità carceraria. A suo avviso, la ragione del trasferimento sarebbe dovuta a una presunta “mancanza di cooperazione con il personale medico”. Il che potrebbe eventualmente essere anche tradotto con “si ostina a rifiutare il cibo e anche l’alimentazione più o meno forzata”.

Viva preoccupazione per la situazione in cui versa Maher Al-Akhras è stata espressa  dal Comitato Internazionale della Croce Rossa. In un comunicato del 22 ottobre si dichiara di essere “preoccupati  per la sua salute e per le conseguenze che potrebbero essere irreversibili”. Aggiungendo che “da un punto di vista medico il prigioniero si trova in una fase critica”. Il giorno successivo – 23 ottobre – Michael Lynk (commissario speciale delle Nazioni unite per la situazione dei Diritti umani nei Territori Palestinesi)  aveva chiesto esplicitamente a Israele di “porre fine alla prassi della detenzione amministrativa” e di “liberarlo immediatamente”.Una decina di giorni fa un consistente gruppo di detenuti palestinesi (circa 40)  rinchiusi nel carcere di Ofer aveva iniziato uno sciopero della fame in solidarietà con Al-Akhras. Si tratta di prigionieri appartenenti a diverse organizzazioni e tra loro si trovano appartenenti sia ad Hamas che alla Jihad islamica e al Movimento nazionale di Liberazione della Palestina (Al-Fatah).  D’altro canto non sembra questo un buon momento per le rivendicazioni del popolo palestinese.

Qualche giorno fa le autorità israeliane  hanno deciso di classificare come “terrorista” il Polo studentesco democratico progressista (in quanto ritenuto contiguo al Fronte Popolare di Liberazione della Palestina). Da tempo nel mirino della repressione (con arresti, intimidazioni…), è composto da migliaia di aderenti e rappresenta una delle principali organizzazioni studentesche dell’Università di  Birzei in Cisgiordania.   Risale invece alla settimana scorsa la notizia che il ministero israeliano degli Affari strategici avrebbe dato l’autorizzazione per stanziare la cifre di ben 37 milioni di dollari per far pubblicare sui giornali di ogni angolo del pianeta quella che a tutti gli effetti non sarebbe altro che pubblicità. Ma facendola apparire come informazione (grazie a giornalisti compiacenti). Obiettivo, le campagne BDS (che si autodefiniscono “il movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni contro l’occupazione e l’apartheid israeliano”). In pratica – se la notizia fosse confermata – Israele starebbe organizzando una campagna a livello mondiale contro i movimenti che lottano per i diritti del  popolo palestinese. Già in precedenza (fonte di entrambe le notizie è il giornalista Itamar Benzaquen del periodico on-line 972 Magazine) il ministero degli Affari strategici avrebbe versato ingenti somme al Jerusalem Post e a diverse altre testate, non solo israeliane, per pubblicare articoli contro BDS. Articoli  basati più sulle “veline” del ministero israeliano che su autentiche inchieste giornalistiche.          

Gianni Sartori