Un suicidio ogni cinque giorni, quando carcere vuol dire disperazione
Il numero di detenuti che si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno sale drammaticamente a 48, soprattutto giovani. Mai così tanti. Dall’inizio dell’anno si sono tolte la vita 48 persone. Quasi una ogni mille persone recluse. Se si fossero ammazzate dall’inizio dell’anno 60 mila italiani liberi, ovvero la stessa proporzione dei detenuti suicidati rispetto al totale della popolazione reclusa, avremmo pensato a un’emergenza nazionale da affrontare con tutti i mezzi a disposizione
di Eleonora Martini
Se si era pensato ad un incidente, uno dei tanti che avvengono nelle carceri quando la disperazione prende il sopravvento e il bisogno di «sballarsi» si trasforma in tragedia. Se non avessero trovato il bigliettino che Donatela, albanese di 26 anni, fragile e tossicodipendente, un passato di furti e piccole rapine, un futuro molto prossimo – appena qualche settimana – in una comunità per disintossicarsi, ha lasciato al suo amore, la sua morte non sarebbe neppure stata calcolata tra i suicidi. «Leo, amore mio, sei la cosa più bella che mi poteva accadere» ma «ho paura di tutto, di perderti, e non lo sopporterei», ha scritto prima di morire con una calligrafia chiara su un fogliettino di carta.
FRANCESCO IOVINE invece aveva 43 anni e un corpo che era arrivato a pesare un chilo per ogni anno di vita vissuta. Anoressico, con problemi psicologici gravi, detenuto per piccoli reati (fine pena 2024), si è suicidato nel reparto sanitario di Poggioreale. «Domenica pomeriggio (7 agosto, ndr), mentre soccorrevano Francesco, dal carcere hanno chiamato il 118: l’autoambulanza è arrivata dopo 40 minuti», racconta il garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello. Quel giorno «a Poggioreale per più di 2000 persone era presente un solo psichiatra».
A giugno Giacomo Trimarco, 21 anni, dopo due tentativi è riuscito a suicidarsi nel carcere milanese di San Vittore. Avrebbe dovuto essere curato, era in attesa di trasferimento in una Rems (le strutture sanitarie psichiatriche per l’esecuzione delle misure di sicurezza). Pochi giorni prima nello stesso istituto era stata la volta di Abou El Maati, un giovane di 24 anni, cittadino italiano di famiglia egiziana.
SONO SOLO ALCUNI dei 48 (o 49, dipende da come viene conteggiata la morte di Desiad Ahmeti, 28 anni, nel carcere di Salerno: il primo dell’anno in corso, o l’ultimo del 2021) detenuti morti suicida in 222 giorni: più di uno ogni cinque giorni, la maggior parte stranieri, tre le donne. «Numeri così alti non si sono mai registrati, neanche negli anni del grande sovraffollamento che portò alla condanna dell’Italia da parte della Corte Europea dei Diritti dell’uomo», rileva l’associazione Antigone. In carcere, quest’anno, le persone si sono uccise 16 volte in più rispetto a quanto accade nel mondo libero, l’anno scorso erano 11 volte in più. Rinchiusi nelle celle degli istituti penitenziari italiani a fine luglio, c’erano 54.979 persone su poco più di 50 mila posti disponibili. «Nello stesso periodo dello scorso anno, i suicidi furono 34», riferisce il Garante nazionale Mauro Palma. E ad uccidersi in carcere non sono solo i detenuti: tre agenti penitenziari dall’inizio dell’anno sono morti così. L’ultimo tentativo risale al 4 agosto, ad Augusta, dove un uomo di 52 anni, originario di Noto e residente a Siracusa, si è sparato con l’arma di ordinanza rischiando di lasciare orfani i suoi due figli. La sofferenza dei detenuti si riverbera su tutta la comunità carceraria.
TRA I RECLUSI, «la fascia d’età in cui si sono registrati la maggior parte di questi atti – scrive ancora Antigone – è quella tra i 20 e i 30 anni. Persone giovanissime, quindi, con tutta la vita davanti a loro. Molti tra quelli che si sono suicidati erano poi appena entrati in carcere o prossimi all’uscita. Se si guarda agli istituti dove nel 2022 si sono consumati più suicidi (Roma Regina Coeli, Foggia, Milano San Vittore, Palermo Ucciardone, Monza, Napoli, Genova Marassi e Pavia), i problemi sono sempre gli stessi: cronico sovraffollamento, elevata percentuale di detenuti stranieri, di tossicodipendenti e di detenuti affetti da patologie psichiatriche, ed una carenza di personale specializzato per farsi carico di queste criticità». Secondo Aldo Di Giacomo, segretario generale del Sindacato Polizia Penitenziaria, «oltre il 60% dei suicidi in carcere ha come vittime tossicodipendenti o detenuti con problemi psichici». Una «strage di Stato», la chiama Di Giacomo.
IL MINISTERO della Giustizia non ha abbastanza dati (o non li pubblica) riguardo le morti in carcere. Sopperisce a questa mancanza il lavoro prezioso della redazione di Ristretti orizzonti che da 25 anni produce una rivista dalla casa di reclusione di Padova e un data base dettagliato per dare corpo (volti e storie) a quel numero secco e anonimo (senza nomi, date né luoghi) divulgato a fine anno dal Dap come dato dei morti e dei suicidi dietro le sbarre. «Molte di queste tragedie sfuggono al conteggio del ministero – spiegano dalla redazione di Ristretti – quando per esempio il detenuto suicida spira in ospedale, oppure quando, se si usano bombolette del gas, viene derubricato ad incidente».
APPENA QUALCHE GIORNO fa però Carlo Renoldi, capo del Dap da pochi mesi, ha finalmente divulgato una circolare per prevenire i suicidi. «È una circolare minuziosamente attenta a cercare un metodo per intercettare le persone a rischio – commenta Ornella Favero, direttrice di Ristretti orizzonti – Bene, ma bisogna capire perché sta succedendo proprio adesso». Già, perché? «Si era aperta una stagione di grande speranza, dopo la tortura del lockdown da Covid – spiega – È stato un periodo davvero terribile, quello: l’isolamento estremo, la chiusura di tutte le attività interne al carcere, il divieto di vedere i familiari… E poi rivedere i figli dopo mesi e solo dietro a un vetro divisorio. Ci avevano sperato davvero, di poter avere qualche giorno di liberazione anticipata a parziale compenso di ogni giorno passato in quel modo. Ma la politica non è riuscita a fare neppure questo, la delusione è stata forte. E ora, caduto il governo, è rimasta solo la disperazione. In più in questo periodo le carceri sono un’indecenza: ci sono 40 gradi nelle celle ed è impossibile pure tenere i blindati aperti per fare un po’ di corrente. I numeri sono enormi, il personale carente».
C’È SOLO UNA COSA che un po’ scalda il cuore di Ornella Favero: «Trovo eccezionale la lettera del magistrato di sorveglianza di Verona che dopo il suicidio di Donatela si interroga e ammette di non aver fatto abbastanza». La lettera in cui Vincenzo Semeraro, che seguiva Donatela da tanti anni scrive: «So che avrei potuto fare di più per lei, non so cosa, ma so che avrei potuto fare di più! Io le volevo bene davvero. Anche noi magistrati a volte ci leghiamo di più ad alcune persone che ad altre. Non sono riuscito a fare quello che volevo ma mi impegnerò a non sbagliare ancora». «È un esempio – dice sottovoce Favero – che dovrebbero seguire tutte le istituzioni».
da il manifesto
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Meglio una telefonata che una manciata di voti incattiviti
Dall’inizio dell’anno si sono tolte la vita 48 persone. Quasi una ogni mille persone recluse. Se si fossero ammazzate dall’inizio dell’anno 60 mila italiani liberi, ovvero la stessa proporzione dei detenuti suicidati rispetto al totale della popolazione reclusa, avremmo pensato a un’emergenza nazionale da affrontare con tutti i mezzi a disposizione
di Patrizio Gonnella
Mio figlio si è tolto la vita». «Mio padre si è ammazzato». «Mia sorella si è suicidata». Mio marito, mia moglie, mio cugino, la mia amica sono morti in carcere. «Era in galera da pochi mesi». «Era disperata, sola». «Stava male, aveva già tentato di ammazzarsi varie volte». «Era all’inizio della pena». «Avrebbe dovuto essere liberato». «Era dentro per un avere rubato una pecora». Ogni volta che sulla posta elettronica di Antigone o nei nostri telefoni arrivano mail o chiamate di questo tenore, ci si spezza il cuore.
Chi, tra amici e familiari, resta in vita è basito, distrutto, vuole sapere quello che è accaduto. Quella del suicidio è una notizia che arriva, non di rado, a distanza di troppo tempo dall’ultima visita, dall’ultima telefonata. Una notizia che non si vorrebbe mai avere. Dall’inizio dell’anno si sono tolte la vita 48 persone. Quasi una ogni mille persone recluse. Se si fossero ammazzate dall’inizio dell’anno 60 mila italiani liberi, ovvero la stessa proporzione dei detenuti suicidati rispetto al totale della popolazione reclusa, avremmo pensato a un’emergenza nazionale da affrontare con tutti i mezzi a disposizione, anche di fronte a un governo dimissionario, anche con le elezioni alle porte e con l’obbligo di non uscire dal confine degli affari correnti. D’altronde, le emergenze ben possono essere ricondotte nei limiti di ciò che è affare corrente di cui occuparsi. È una questione etica, oltre che politica.
Ha fatto bene il Dap a ricordare allo staff penitenziario tutto ciò che deve essere fatto per prevenire un atto suicidario in termini di attenzione, presa in carico multidisciplinare e sorveglianza. Siamo ad agosto, fa caldo, il personale è in ferie, le attività di formazione e intrattenimento sono sospese, la scuola è chiusa. I rapporti con l’esterno si rarefanno drammaticamente nei mesi estivi. Alla solitudine della prigione si accompagna una sensazione di abbandono, di isolamento dal mondo.
Se questa è la condizione diffusa in agosto nelle carceri italiane, non c’è motivo perché si impedisca al detenuto di avere contatti personali telefonici quotidiani con i propri cari. Il nostro Regolamento penitenziario, che ricordo non è una legge, ma un atto amministrativo del governo avente fonte normativa secondaria, concede una telefonata a settimana per soli dieci minuti tendenzialmente solo ai familiari e non agli amici, e questo ha dell’incredibile. In qualche caso negli istituti sono autorizzate telefonate straordinarie da direttori disponibili. Bisogna intervenire su questa norma, adesso, subito.
Una telefonata a una persona vicina, amata può salvare la vita. Una telefonata di questo tipo non può che essere estemporanea; avviene quando la mente è occupata da pensieri tragici, di morte. Oggi sono consentite poche telefonate programmate in orari prestabiliti. Alle donne e agli uomini in carcere non devono essere tagliati i legami, i ponti con l’esterno. È inumano, nonché in netto contrasto con una idea di pena che deve tendere al reinserimento dei condannati. Vanno messi i telefoni in cella dando a disposizione ai detenuti quattro/cinque numeri da comporre, con tutte le verifiche del caso. La Francia lo ha previsto nel 2018. Va data la possibilità di chiamare giornalmente le persone selezionate. Un’unica eccezione potrebbe riguardare quei detenuti per i quali sono previste precauzioni legate al reato commesso.
È inutilmente vessatorio negare al detenuto la possibilità di chiamare un amico o un parente quando ne sente il bisogno (anche solo per sentire la sua voce, per chiedergli scusa, per farsi convincere a non impiccarsi alle sbarre con le lenzuola). È una forma crudele di etero-controllo delle emozioni e dei sentimenti. È qualcosa di anacronistico che rende i detenuti ancora più soli e ancora più disperati.
Il governo avrebbe dovuto approvare quanto suggerito dalla Commissione per l’innovazione penitenziaria presieduta dal prof. Marco Ruotolo. Non lo ha ancora fatto. Dia un segnale, adesso, in una direzione che si chiama «dignità umana». Tutti quelli che dicono di rispettare la vita, anche tra i futuri governanti, non si oppongano per racimolare una manciata di voti di persone incattivite.
Non trovo mai un mitovo abbastanza valido per imprigionare qualcuno,e quando penso a coloro i quali sono da anni ostaggio dei mortificatori di stato,l’unica idea che mi viene in mente è che chi ha provocato le azioni dei singoili/e,è stato proprio lo stato. Il quale però ha la disgustosa pretesa di non riconoscersi mai alcuna responsabilità in tutto questo,e così non contento di essere l’artefice della miseria umana che dilaga,colpisce ulteriormente chi ormai è a terra, e non può difendersi.
NO ALLE CARCERI,IN NESSUNA CIRCOSTANZA!