Mi chiamo Francesca e non sono nessuno. Molte voci autorevoli si sono espresse nel merito delle tue dichiarazioni. Voci che non ho voluto ascoltare, per non farmi influenzare.
Vedi, Debora, io non sono nessuno, ma ormai da molti anni lavoro nell’ambito dell’accoglienza rivolta a richiedenti asilo e rifugiati, pertanto le tue parole mi toccano da vicino. Allora ho deciso di spiegarti perché – da donna e da operatrice sociale – ho trovato le tue parole violente. Ho iniziato a lavorare come operatrice a 23 anni – dopo molte esperienze di volontariato nel medesimo ambito.
Da allora ho udito di tutto. “Sei spavalda”, “una donna da sola non deve entrare negli appartamenti”, “non portare gonne”. Consigli Che i miei colleghi uomini – spesso più impreparati e sprovveduti di me – si sentivano in diritto/dovere di darmi. Ora di anni ne ho 29 (da qualche giorno) e coordino – insieme ad una collega – due progetti di accoglienza diffusa e una equipe di 11 persone. Ma i consigli continuano ad Arrivare. Commenti paternalisti, velatamente maschilisti e fortemente squalificanti. Commenti che rinforzano l’immaginario di un categoria di persone, le operatrici sociali donne, come un Branco di “sprovvedute allo sbaraglio”, sempre in pericolo (in quanto incapaci di valutare i rischi che la professione – come ogni professione – include) prede di uomini pericolosi a prescindere e non potenzialmente pericolosi come ciascuno di noi può essere.
Quando mi dicevano :”come fanno due donne a gestire un progetto dedicato a decine di uomini?” La mia risposta era sempre la medesima: “creando relazioni”.
In questi anni – come chiunque si trovi svolgere Questo lavoro – ho sedato risse, ho alzato la voce, mi sono ritrovata da sola in una stanza con uomini molto più forti di me che con un solo braccio sarebbero stati in grado di paralizzarmi. Ma non ho mai avuto paura. Sai perché? Perché con quegli uomini ho stretto un patto. No, non un patto di accoglienza. Un patto di fiducia e di rispetto. L’ho siglato con loro, con ognuno di loro, in quanto essere umani, non in quanto richiedenti Asilo. Perché il rispetto, la fiducia e l’educazione che chiedo a loro sono le stesse Che chiedo ad ogni essere umano con il quale instauro una relazione, di qualunque natura (sentimentale, lavorativa ecc..).
Qualcuno di loro ha tradito quel patto (stimo si tratti di circa il 2% delle persone accolte e conosciute negli anni) ma mai con violenza. Sono preparata, come molte altre colleghe. E sono stata fortunata, anche. Ma se uno di quegli uomini mi avesse usato violenza (non necessariamente sessuale) avrebbe rotto il patto di fiducia che io avevo stretto con lui. Con lui, e con lui solo. Avrebbe commesso un atto ripugnante – non odioso, come lo hai definito tu – indelebile. Indelebile tanto quanto quello di un uomo che ti molesta su un autobus, o in stazione, o sul luogo di lavoro, o in casa.
Aggiungo, come nota a margine purtroppo non approfondibile in questa sede (ci vorrebbe almeno un altro articolo), che richiedere protezione è un diritto. E chi si avvale di un diritto non deve stringere alcun patto ulteriore al buon senso, con chi è deputato a riconoscerglielo. Quando il “capo” ti paga lo stipendio, quando il tuo medico ti cura, tu stai esercitando un diritto, e loro il loro dovere. Quello che tu sei nella tua vita privata, il “contratto sociale” che rompi con gli altri abitanti di questa terra, riguarda te, la giustizia, ed eventualmente il tuo Dio. Punto.
Quello che anche tu chiami buonismo ha già una nome: buon senso. Qualcosa che sembra essersi perduto, annacquato nel populismo più becero.
Perché, Deborah, non credi che chiunque stipuli con gli altri dei patti di fiducia? E un padre che stupra la propria figlia (per usare un esempio aberrante – ma purtroppo realistico), non rompe un patto di fiducia? E davvero vogliamo lasciare spazio all’idea che consumare violenza tra le mura domestiche sia un atto meno deprecabile, meno vergognoso, meno vigliacco che consumarla a discapito di una sconosciuta? Davvero vogliamo creare una società nella quale vige la hit list del dolore?
Questo non solo origina l’idea di stupri più gravi di altri, ma alimenta l’immagine di cittadini di serie A ai quali è “un po’ più concesso” commettere reati. Se sono italiano il mio reato è un po’ meno grave del tuo, Alì dagli occhi azzurri – per tirare in ballo Pasolini. Ma uno stupratore, è uno stupratore (o meglio, è anche uno stupratore, ma anche qui non possiamo approfondire), e la Sua origine – per la vittima – è un dato irrilevante. Se mi violenti, rompi quel tacito patto di cui parlavo precedentemente che sta alla base del vivere civile, e tanto basta.
Per Questo, Debora, le tue parole suonano violente. Violente per chi è stato vittima di abusi da parte di un italiano, che improvvisamente si trova relegata nel gruppo delle “”vittime un po’ meno vittime delle altre”. Sono violente Nei confronti dei tantissimi richiedenti asilo che non possono continuare a pagare le colpe dei singoli individui e non devono continuare a sentirsi capro espiatorio di ogni male. Violente nei confronti delle donne che – come me – lavorano in questo campo e faticano ad affermare la propria professionalità e la propria visione.
Infine sono violente nei confronti di una parte dei tuoi elettori. Nei confronti di chi ti ha davvero creduta la promessa della sinistra progressista e ora ti ritrova a rincorrere le destre, sul loro terreno, partecipando ad un gioco al ribasso nel quale a perdere sono sempre i più deboli.
Ecco con queste persone, vittime, richiedenti, operatrici ed alcuni elettori, l’unica ad aver rotto un patto di fiducia, in modo odioso, sei stata tu.