La volgarità delle esternazioni del ministro Valditara è un segnale di qualcosa di più profondo. Da un lato mostra che la “diffidenza di Stato” si rivolge contro ogni memoria antifascista mentre protegge la nostalgia del fascismo. Dall’altro evidenzia come il sogno del capitalismo che stravince sia quello di tornare a un mondo in cui nessun limite faccia da argine alla tracotanza dei potenti
di Sergio Labate
La vergogna è un sentimento desueto, non appartiene ai nostri tempi. Ed è anche complesso da maneggiare politicamente. Innanzitutto perché è del tutto personale. Certo può essere rivolto al timore di un giudizio pubblico, ma è sempre qualcuno che si vergogna per se stesso. In secondo luogo perché la vergogna è un prezioso indicatore della qualità etica di una società, ma – e per fortuna – il nesso tra etica e politica è sempre mediato, non diretto, richiede una particolare destrezza interpretativa. Eppure sono convinto che le dichiarazioni del ministro Valditara ci portino inevitabilmente a una riflessione sul ruolo pubblico della vergogna. Perché, se è vero ciò che ho scritto poc’anzi, noi non possiamo vergognarci per lui. Possiamo però sentire un’inquietudine profondissima dinanzi alle sue dichiarazioni. Parole che suonano sorde e dure, come un rumore di manganelli agitati contro chi ricorda che per i manganelli non c’è spazio nella nostra Repubblica antifascista. Parole per cui non basta l’indignazione. Non ci si può limitare a censurare l’episodio singolare. È grazie alla vergogna che possiamo riconoscere in questo evento alcune direzioni culturali e politiche che, se possibile, trasformano la volgarità di Valditara in un segno assai più minaccioso. C’è una storia universale dell’infamia dentro cui collocare le parole che ci indignano.
La prima direzione che vorrei segnalare è molto semplice. Ancora una volta abbiamo l’esempio di come si sia consumata una rottura inesorabile con gli eventi fondatori della storia repubblicana. A questo proposito può essere utile ricordare per intero il celebre passo del discorso di insediamento come Presidente della Camera di Violante nel 1996: «Mi chiedo, colleghi, me lo chiedo umilmente, in che modo quella parte d’Italia che in quei valori crede e che quei valori vuole custodire e potenziare nel loro aspetto universale di lotta alla tirannide e di emancipazione dei popoli, non come proprietà esclusiva, sia pure nobile, della sua cultura civile o della sua parte politica, mi chiedo – dicevo – cosa debba fare quest’Italia perché la lotta di liberazione dal nazifascismo diventi davvero un valore nazionale e generale, e perché si possa quindi uscire positivamente dalle lacerazioni di ieri. Mi chiedo se l’Italia di oggi – e quindi noi tutti – non debba cominciare a riflettere sui vinti di ieri; non perché avessero ragione o perché bisogna sposare, per convenienze non ben decifrabili, una sorta di inaccettabile parificazione tra le parti, bensì perché occorre sforzarsi di capire, senza revisionismi falsificanti, i motivi per i quali migliaia di ragazzi e soprattutto di ragazze, quando tutto era perduto, si schierarono dalla parte di Salò e non dalla parte dei diritti e delle libertà». A rileggerle con attenzione, si capisce che queste parole vengono spesso citate a sproposito, sia da un lato sia dall’altro. Non rappresentano né un’ingenua chiamata alle armi né una subdola ideologia della pacificazione. Dobbiamo avere il coraggio almeno di far finta che queste parole siano state pronunciate in buona fede. Esercizio che non serve a giustificarle, ma ad aggravarne le conseguenze storiche. Perché il veleno non sta nell’origine, ma nella coda. Il loro innegabile fallimento non è tanto nell’intenzione con cui sono state pronunciate, ma nella successiva storia degli effetti. Se anche fosse vero che quel cominciare a riflettere “sui vinti di ieri” aveva come proprio obiettivo di far in modo che “la lotta di liberazione dal nazifascismo diventi davvero un valore nazionale e generale”, è evidente che quell’obiettivo non solo non è stato raggiunto, ma è stato del tutto rovesciato. Ciò che è cambiato – nell’arco di tempo che distanzia le parole di Violante dalle minacce di Valditara – è che non solo è diventato legittimo evocare con simpatia il fascismo ma anche che ormai la “diffidenza di Stato” si rivolge contro ogni memoria antifascista mentre protegge la nostalgia del fascismo. Insisto su questo punto perché non mi pare compreso abbastanza. Per quanto io e tanti altri possiamo indignarci nei confronti del ministro che va contro la nostra Costituzione, dobbiamo prendere atto che il discorso egemonico è quello per cui essere antifascisti è anacronistico, ideologico e sostanzialmente inutile. Mentre ammiccare al fascismo è tutto sommato simpatico e non troppo pericoloso. Per questo non riesco né a perdonare Violante né a sottovalutare Valditara. Perché mi fa paura un mondo in cui il discorso ufficiale possa ridicolizzare l’antifascismo e minimizzare il fascismo. E credo che questo discorso sia diventato ufficiale grazie alla complicità di chi aveva la responsabilità politica di custodire il fondamento antifascista.
La seconda direzione è più ampia e, per certi versi, anche più preoccupante. Valditara che non si fa scrupolo nel minacciare una sua sottoposta non è poi così diverso dalla violenza dei politici che querelano sistematicamente i giornalisti, oppure da una magistratura che si accanisce contro un anarchico in prigione, o dagli imprenditori e dai politici che non perdono occasione di attaccare i percettori del misero reddito di cittadinanza. Ma non è necessario far riferimento a eventi che occupano le prime pagine dei giornali. Non è così diverso anche da un medico che non ha tempo e voglia di spiegare al paziente cosa sta accadendo del proprio corpo, oppure di un burocrate che approfitta della buona fede di un anziano per confonderlo. Che cosa unisce tutti questi eventi apparentemente eterogenei? Proprio il fatto che in essi si intravvede il principio dell’autoritarismo, cioè la sfrontatezza con cui il potente non riconosce più alcun limite al proprio potere. Come è stato possibile giungere a un punto in cui i potenti esibiscono il proprio potere come un abuso, disinteressandosi di ogni conflitto d’interessi e di ogni principio d’equità? Come è stato possibile accettare l’incessante esibizione dei forti che non intendono solo vincere ma vogliono ormai stravincere, umiliando i deboli e coloro che sono costretti – dall’organizzazione sociale e dalla sclerotizzazione di classe – a essere sottomessi?
Queste domande non sono semplicemente retoriche, ma rimandano a un livello di profondità che val la pena accennare in chiusura. Tutto ciò è possibile perché si è ormai composta un’alleanza tra il capitalismo e l’autoritarismo.
È un discorso complesso ovviamente. Però mi pare si possa sommariamente dire che quella fase ultima del capitalismo che definiamo genericamente come neoliberismo si caratterizzi anche per questo: per il fatto di aver scelto di rivolgersi alle democrazie liberali non come a una risorsa di cui servirsi, ma come qualcosa di cui disfarsi e anche frettolosamente. È una delle conseguenze di quella tendenza sociale magistralmente descritta decenni fa da Luciano Gallino (quanto manca la sua appassionata lucidità): il fatto che il conflitto di classe sia finito e abbiano vinto i ricchi non è un semplice dato accidentale della dinamica del tardo capitalismo, ma ne rappresenta l’essenza. Valditara non è che un sintomo. Di una patologia grave della società. Non fa altro che estendere sul piano politico e culturale questo principio essenziale del neoliberismo: che non si tratta più di cercare mediazioni, di trovare accordi, di rispettare la controparte dialettica. Si tratta ormai di non fare prigionieri. È questa la lotta di classe dopo la lotta di classe e Valditara sta lì perché rappresenta la concretizzazione culturale di questo principio predatorio, a partire dalla sua ideologizzazione del merito. Che altro effetto ha infatti la retorica del merito, se non quello di legittimare la predazione dei potenti che invece di rendere disponibili quote di potere lo tengono tutto per sé e lo usano contro tutti gli altri costretti a stare dalla parte di chi subisce? È la lotta di classe dei potenti contro coloro che il potere lo rispettano e non lo usano, dei ministri contro gli insegnanti e i giornalisti, dei giudici contro gli ergastolani. Non basta vincere, bisogna stravincere. E il capitalismo tronfio sa che stravincere vuol dire togliere ogni parvenza di limite ai potenti. Che sia il diritto, che sia la parola, che sia un sussidio di dignità. Il capitalismo che stravince ha bisogno di persone come Valditara, per ricordare a tutti che il suo sogno è ormai quello tornare a un mondo in cui nessun limite faccia da argine alla tracotanza dei potenti.
La grande vittima di Valditara e della malattia di cui è sintomo è la grande utopia della democrazia degli uguali. Non siamo affatto tutti uguali e un ministro oggi può ricordarlo minacciosamente a una preside senza sentirsi costretto a dimettersi. Sembra ormai tutto organizzato politicamente affinché i forti possano prendersela coi deboli non di soppiatto, come è sempre accaduto, ma platealmente, senza pudore e senza vergogna.
Con una meravigliosa intuizione, Kafka scrive a un certo punto di uno la cui paura più grande è quella che «la propria vergogna possa sopravvivergli». Eccola, la vergogna. Temere che i propri misfatti possano sopravvivere alla propria vita. Senza il limite personale della vergogna va in crisi qualunque democrazia. A me pare che la nostra società non coltivi né il pudore né la vergogna. A Valditara – come al suo epigono La Russa che non perde occasione per mortificare le istituzioni repubblicane – non possiamo che opporre una “storia presente della colonna infame”. Di nuovo l’abuso di potere si rivolge contro gli innocenti tanto che, come scrive Manzoni, «è un sollievo pensare che se non seppero quel che facevano, fu per non volerlo sapere, fu per quell’ignoranza che l’uomo assume e perde a suo piacere, e non è una scusa ma una colpa». Non ci resta molto da fare, se non pronunciare pubblicamente l’infamia, anche a costo di essere censurati: non smettere di far sapere a persone come Valditara che la loro vergogna sopravviverà al loro nome.
Post scriptum. Lasciatemi raccontare una storiella, che giunge in queste ore dai margini dell’impero. Finalmente il direttore generale dell’Ufficio scolastico delle Marche – tal Filistetti – va in pensione. È celebre perché in questi anni ha costretto intere generazioni di studenti a leggere documenti ufficiali intrisi di nostalgia del regime e carichi di un livore contro la vera storia antifascista. Un’imbarazzante sequela di atti pubblici che sembravano usciti direttamente da Fascisti su Marte, con persino l’invito ai poveri ragazzi ad agire con «fede, onore e disciplina». Finalmente è finita, mi dico. Invece mi sbaglio. Da inizio marzo Filistetti farà il consulente tecnico del ministro Valditara. Si occuperà di «restituire autorevolezza alla figura dell’insegnante». Proprio quello che serviva. Ecco il merito, la vergogna, la tentazione del fascismo eterno. La storia presente della colonna infame va aggiornata, minuziosamente.
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