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Ventimiglia, la Lampedusa delle montagne

Scappare dai controllori, accamparsi sotto un ponte e poi l’attesa nella notte dei passeur per varcare le Alpi, in viaggio con Mamadù e gli altri

Da Roma a Ventimiglia, in treno, ci sono quasi sette ore. Il Freccia Argento 8630 per Genova Piazza Principe, sul quale viaggia anche Mamadù, arriverà alle 23,40. A quell’ora non ci sono più treni regionali per «la Città di confine». Mamadù vorrebbe trascorrere la notte in stazione a Genova per poi, all’alba, con il primo treno, raggiungere Ventimiglia, questo piccolo comune italiano della provincia di Imperia di quasi venticinque mila abitanti, ultimo baluardo prima della Francia dove tanti migranti sono diretti. Mamadù in Francia, a Parigi, ha alcuni amici senegalesi conosciuti un anno e mezzo fa in Sicilia.

SUL TRENO 8630 due poliziotti in divisa sono fissi, nel senso che controllano il treno, passeggiando dalla carrozza n.1 fino alla 9 e viceversa. Alla fermata di Viareggio il controllore intima di scendere a due ragazzi, uno di loro è Mamadù, e una ragazza, anche loro migranti, perché senza biglietto. Sono della carrozza numero 9.

Sarà poi la polizia ferroviaria, che, precedentemente allertata aspetta già sul binario, ad accompagnarli fuori dalla stazione. Fine del viaggio per Mamadù, anche se già domani ci riproverà da Viareggio. Così come tanti altri migranti che vogliono varcare la frontiera. L’indomani alle 13,43 dalla stazione di Genova Piazza Principe con il treno regionale 11350 ci dirigiamo a Ventimiglia. Dal finestrino, prima che il treno venga risucchiato dalle gallerie, salutiamo le grandi navi da crociera ormeggiate al porto antico di Genova, lungo il Ponte dei Mille. Superiamo Sampierdarena, piccola fazione della città, oggi zona a trazione sudamericana, un tempo quartiere di accoglienza per gli immigrati del Sud, soprattutto siciliani.

Così come Certosa. Si vedono i cantieri dell’Ilva con i suoi container e il porto nautico, ricordo della Liguria industriale. Il silenzio rumoreggiante del treno s’interrompe dal suono del cellulare oppure dai clic per i selfie di quattro ragazzi di colore, al passaggio del mare alla destra del treno. Un altro ascolta a volume alto dal cellulare «The Power of Love» di Celine Dion. E così tra le note arriviamo a Ventimiglia.

APPENA USCITI dalla stazione c’è una piccola rotonda con delle piante. Seduti lì ci sono alcuni ragazzi, un misto di Eritrea, Sudan, Marocco. Sono queste le nazionalità dei ragazzi con qui proviamo a interloquire in inglese. Gli altri non lo parlano. Dopo poche parole, il giusto per farci indicare il ponte dove vivono, dalla stazione proseguiamo per via della Repubblica fino alla piazza del Municipio e poi a destra, lungo il ponte, lasciando a sinistra la spiaggia e il mare. La stessa direzione nel frattempo è percorsa da vari migranti; sbucano dalle diverse vie che però si ricongiungono alla strada principale. È facile trovare il cammino. Ad un certo punto si vede uscire, dai cunicoli del ponte, qualche ragazzo. Tanti di loro dormono lì dentro. E poi indumenti stesi o appoggiati a terra sulla riva del fiume Roja, che divide Italia e Francia e da due anni luogo dove uomini, donne e bambini hanno trovato dimora.

PROPRIO SOTTO IL PONTE, a destra, si trova la Chiesa di Sant’Antonio da Padova dove la Caritas somministra il cibo. Seduti su un muretto i migranti aspettano a turno di poter ricevere qualcosa da mangiare, anche se la precedenza spetta a donne e bambini. «Ventimiglia Frontière solidaire» recita un foglio appeso sul muro accanto alla chiesa, e ancora «Camp di transit pour families». Possono essere accolte donne con figli e marito, donne incinte e ragazzi soli con meno di 15 anni. L’entrata è consentita fino alle 22,00. Ogni ospite è registrato, con i dati personali e una foto, in più agli adulti e ai minori non accompagnati viene messo un braccialetto con il numero della registrazione. Tra i servizi offerti, oltre al cibo, ci sono le docce, il pernottamento, l’ascolto e la consulenza legale. Dallo scorso 15 luglio don Rito Alvarez e altri volontari hanno tirato su tutto questo.

COLOMBIANO, scampato ai narcos, in Colombia ha fondato «l’Oasis de Amor Y Paz», fondazione che recupera i bambini che lavorano nelle piantagioni di cocaina, e qui in Italia don Rito si occupa soprattutto dei più deboli e indifesi, dei minori non accompagnati. Nella sua parrocchia sono 55. «È questa la situazione più drammatica, un vero è proprio allarme», afferma il prete.

A MAGGIO, in Prefettura, si è tenuta una seduta del Consiglio territoriale per l’immigrazione sulla situazione dei migranti nella città di confine, voluta dai referenti di Unhcr, Caritas diocesana, Save The Children, Medici Senza Frontiere e altre associazioni. Hanno richiesto posti di accoglienza in più inprevisione della stagione estiva, con strutture dedicate ai migranti più esposti e a rischio di tratta, quindi donne e minori, con una sezione dedicata ai nuclei familiari.

AL CENTRO ACCOGLIENZA di don Rito c’è pure Samira, una bambina etiope di dieci mesi. È nata lì, tra il fiume, la parrocchia e il campo Roja allestito dalla Croce Rossa italiana. Incontriamo lei e la mamma durante la nostra visita. Così come una signora inglese che si è trasferita a Ventimiglia e una ragazza, anche lei inglese. Sono volontarie e cucinano il cibo ai migranti. Anche Rama, afgano, è un volontario, mediatore del centro. Con lui ci addentriamo sotto il ponte dove sono tanti i ragazzi che in questa giornata di sole dormono ancora sotto le coperte. Altri sono seduti a guardare non si sa cosa. Alcuni non mangiano da giorni, altri chiedono sigarette. Rama spiega che molti di loro aspettano la notte per provare tra le tante strade di montagna a superare il confine. «Certo, i francesi hanno chiuso quasi tutto. Tornano sempre indietro. Su dieci, solo qualche volta due riescono a passare. Oppure ogni tanto qualche mamma e bambino. Non di più», dice Rama.

DI GIORNO si dorme e la notte si tenta la fortuna tra strade di montagna, binari del treno e autostrade al buio. Magari trovando qualche «trafficante di terra» che dietro pagamento li trasporta sul furgone, di nascosto. Qualcuno dei volontari accenna a queste storie, come anche ad abusi e violenze che si consumano di notte da queste parti. Ma su questi temi bisogna indagare molto. C’è paura a denunciare, difficoltà a raccogliere testimonianze. Se appena arrivati in Italia, il sentimento più diffuso era la speranza, sempre più subentra la disperazione, l’attesa, in qualcosa che non c’è.

LA SERA arriveranno anche i volontari francesi che una, due volte a settimana distribuiscono il cibo. Pare si sia allentata anche la caccia a chi distribuisce cibo qui a Ventimiglia. Dopo l’ordinanza del sindaco Pd che aveva destato stupore e sconforto. Si attende il processo a italiani e francesi che hanno disubbidito. Intanto non è difficile immaginare la sorte che sarebbe toccata a Mamadù se fosse arrivato a destinazione.

Rosario Sardella

da il manifesto