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Ventimiglia: Sgomberata la tendopoli dei migranti sul fiume Roja

Ci vivevano circa 200 migranti. All’alba l’intervento delle ruspe mandate dal Comune

Nuovo sgombero a Ventimiglia, deciso dal sindaco Pd Enrico Ioculano. Alle prime luci dell’alba, un ingente schieramento di forze di polizia – oltre cento tra Questura, carabinieri, guardia di finanza e municipale – ha circondato il campo di via Tenda. All’interno vivevano, da ormai oltre cinque mesi, più di duecento persone. Afghani, somali, eritrei, etiopi. Ma anche algerini, tunisini, sudanesi. Alcune le donne. Molti i bambini. Chi ha potuto, si è messo in marcia nella notte per attraversare la frontiera. Gli altri sono rimasti.
Alle sei il via alle operazioni di cleaning. Ancora una volta questo termine è stato usato per abbonire la pillola, per celare, dietro un’azione di pulitura delle sponde del fiume Roja, una vera e propria operazione militare contro chi non ha nulla. Ancora una volta il diritto internazionale è stato terreno di battaglia per ridefinire i poteri sui territori. E non sorprende, dunque, che sia stato dato il mandato, da parte della municipalità di Ventimiglia, a un’azienda privata, la Docks Lanterna, per ripulire la zona da tende e baracche. Le ruspe hanno distrutto tutto e portato via vestiti e materassi.

Decine di persone, appartenenti ad associazioni e a ong hanno seguito lo svolgimento dei lavori. In molti hanno aiutato chi era rimasto nel campo a raccogliere i pochi effetti personali. Intorno alle dieci il campo era completamente militarizzato. Improvvisamente, ha preso fuoco una delle casette. Probabilmente, questo è frutto dell’esasperazione di chi, dopo mesi di notti all’addiaccio e senza alcun servizio igienico, si trova nuovamente per strada ed è, per l’ennesima volta, sotto i riflettori della stampa. Non sono state date alternative. Ed è comprensibile la rabbia e la frustrazione. Anzi, l’incendio, e la sua spettacolarizzazione da parte di gran parte dei media, è il simbolo di una guerra, a bassa intensità, che si sta combattendo sul confine.

L’alternativa non esiste. L’unica possibilità era spostarsi al campo della Croce Rossa. Per entrarvi, però, è necessario essere schedati. Vi è un coprifuoco da rispettare ed è presente un presidio costante della polizia. Ma, soprattutto, è obbligatorio farsi prendere le impronte digitali. Sebbene le autorità chiariscano che i dati non entrano nel circuito di controllo delle frontiere, moltissimi migranti dubitano. Ed è normale. Chi ha attraversato il deserto, subito le violenze delle carceri libiche, chi si è aggrappato a un gommone per arrivare a Lampedusa, certo non rischia di far fallire il progetto migratorio per così poco.

La scorsa notte decine di persone hanno cercato di attraversare il confine, passando per le montagne. Sono oltre trenta i fermati dalla polizia francese. Identificati, sono stati rimandati in Italia. Altri, rendendosi conto di non riuscire a farcela, hanno fatto retromarcia e sono ritornati a Ventimiglia, senza più un posto per la notte. C’è anche chi ce l’ha fatta, come Abdul. Ma una volta arrivato a Menton, è stato bloccato dalla polizia e rispedito in Italia, in modo illegale. Le forze dell’ordine stanno controllando gran parte dei sentieri che portano in Francia. Il passo della morte, ad esempio. Quello, per intenderci, percorso da Grabriele Del Grande in «Io sto con la sposa». Anche gli altri passaggi sono presidiati dall’esercito e praticamente inaccessibili.

Questa non è solamente l’Europa di Schengen e di Dublino, è l’Europa delle polizie. La militarizzazione dei territori di frontiera è tale da rimettere in discussione gli stessi regolamenti comunitari e gli accordi transfrontalieri. Ne è l’esempio il respingimento dei minori non accompagnati da parte della polizia francese. Numerose associazioni e ong – tra cui Asgi, Amnesty International France, Intersos, Caritas Ventimiglia-Sanremo, Diaconia Valdese, Terre des Homes, Oxfam – hanno documentato e denunciato questi respingimenti, in violazione della normativa internazionale e dei diritti umani. Si tratta di minori che fuggono dall’Eritrea, dal Sudan, dalla Guinea, dal Mali, dalla Costa d’Avorio; minori che non sono stati iscritti a scuola né a corsi di formazione, senza permesso di soggiorno e tutore. La maggior parte deve scegliere tra l’attendere un anno l’ottenimento del ricongiungimento famigliare o attraversare irregolarmente le frontiere. I più propendono per questa seconda opzione. La Francia da almeno due anni li rinvia in Italia, senza permettere loro di presentare domanda d’asilo.

Ieri sera ancora non si sapeva dove avrebbero dormito le persone del campo di Via Tenda. Qualcuno dice nella hall della stazione ferroviaria. I lavori di sgombero, invece, andranno avanti ancora per alcuni giorni. La polvere che si alza ha cancellato le speranze di tante persone. Ciascuno di loro aveva il suo buon motivo per arrivare in Europa. Un motivo per sperare in un futuro migliore, oltre il Mediterraneo. Assan è scappato dalla guerra in Siria, dalle bande dell’Isis. Amal ha lasciato l’Eritrea ancora piccola, la mamma l’aspetta in Francia. «Sono di Mogadiscio, là c’è il caos», erano le parole di Ahmed. Tutti erano passati per l’inferno della Libia, tra carceri e smugglers. Alcuni, come Albert, erano scappati dal Darfur. Speranze ancora una volta cancellate per far posto all’Europa delle nazioni e dei confini.

Gabriele Proglio

da il manifesto