Tuttavia il pregiudizio per la tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica dev’essere concreto e dimostrato e non meramente accennato nelle motivazioni di respingimento. Grazie a questo principio, l’avvocata Alice Giannini, a capo del team Diritti Digitali di StraLi, ha ottenuto l’accoglimento di una richiesta di riesame in cui si concede la divulgazione del numero aggregato delle ricerche effettuate in quanto non intralcia il lavoro delle forze dell’ordine.
Una delle tessere mancanti del puzzle Sari è quando sia possibile farne uso. In teoria, secondo l’interpretazione data dal Garante e secondo quanto comunicatoci dalla Direzione centrale anticrimine della Polizia di Stato (Servizio Polizia Scientifica) nel suo diniego, sarebbe tutto chiaro: il suo utilizzo rientrerebbe nelle «attività investigative tipiche» della polizia giudiziaria, in particolare nell’identificazione delle persone sottoposte a indagini.
Lo scopo è effettuare una mera verifica dell’identità anagrafica di un soggetto e i risultati possono essere utilizzati per orientare l’attività investigativa senza che abbiano valore probatorio a dibattimento, ossia che possano considerarsi prove durante il processo.
In una sentenza della Corte di Cassazione del 2020 si possono però dedurre altri possibili utilizzi, oltre l’identificazione.
Un pubblico ministero di Milano ha utilizzato Sari per analizzare il volto di una persona coinvolta in una rissa con altri quattro soggetti, confrontando le immagini registrate da un sistema di videosorveglianza con i volti «presenti su utenze telefoniche» (verosimilmente si tratta delle foto profilo di Whatsapp). Il pm ha poi usato questo risultato a supporto della richiesta di applicazione di una misura cautelare. Tale utilizzo parrebbe appartenere ad una diversa e ulteriore attività investigativa denominata «individuazione di persone e cose», che finora era stata fatta sempre con un album fotografico e la convocazione di un testimone che doveva riconoscere la persona sospettata di aver commesso il reato.
Questo riconoscimento non è di per sé una prova: per renderlo tale serve che venga fatta anche durante il processo ed è un passaggio che nei nostri tribunali può avvenire con una certa facilità. Si tratta quindi di un’attività investigativa diversa da quella descritta dal Garante privacy.