Perché ci si è fatti trovare impreparati di fronte alla seconda ondata del Covid-19? Cosa sono la risposta “disciplinare” e quella “securitaria”? Cosa differenzia l’approccio di precauzione e quello di prevenzione? Perché la logica sicuritaria che sta prevalendo ha analogie con la “guerra preventiva” del campo militare? E soprattutto: a livello di movimenti sociali, da dove può venire la spinta necessaria a una svolta?
Perché ci si è fatti trovare impreparati di fronte alla seconda ondata del Covid-19? Perché le misure prese, in Italia e altrove, faticano a produrre i risultati sperati? Al fondo della questione mi pare stia un nodo politico irrisolto.
Due sono le risposte fondamentali alle minacce epidemiche (e non solo): “disciplinare” oppure “sicuritaria”. La prima è quella tradizionale e si fonda sull’imposizione di regole: confinamento dei malati, limitazione alla circolazione dei sani. La seconda, legata all’affermazione della logica di governo liberale e quindi storicamente recente,1 prevede di fronteggiare il nemico non isolandolo ma contenendolo.
Prevenzione e precauzione
Un primo approccio sicuritario è la prevenzione. Se la drasticità della misura disciplinare si giustifica per l’oscurità della minaccia, la prevenzione si fonda sulla conoscenza e quindi la prevedibilità e gestibilità della sua evoluzione. Questa è la logica delle vaccinazioni. Punto cruciale è il calcolo probabilistico e la conseguente possibilità di definire una proporzione tra minaccia e contromisura. La logica dell’effetto gregge, come sappiamo, è che se si tiene sufficientemente alto il numero dei vaccinati la malattia non è in grado di propagarsi. Tuttavia occorre valutare il rapporto tra costi (vaccinazioni massicce, con le loro implicazioni economiche e, sia pure in piccola percentuale, i loro effetti collaterali) e benefici (gravità della malattia). Una parte del cosiddetto movimento no-vax contesta appunto la proporzionalità tra entità della minaccia e obbligatorietà di alcuni vaccini. Nelle democrazie la proporzionalità è dunque fonte di legittimità, nella misura in cui l’azione di governo si fonda su un presupposto di razionalità calcolativa.
Un secondo approccio, comparso da alcuni decenni, è quello della precauzione. Esso costituisce un indebolimento della logica liberale di governo del territorio e della popolazione, dato che impone di muoversi prima di conoscere bene l’avversario, nell’assunto che il tempo necessario ad acquisire informazioni più solide potrebbe andare a vantaggio di quest’ultimo, riducendo l’efficacia dell’azione. L’intervento precauzionale non consente quindi, per definizione, una vera e propria valutazione di proporzionalità, nonostante quest’ultima sia richiamata, con evidenti fini legittimatori, dalla legislazione. Ma c’è dell’altro: quanto più l’azione precauzionale è efficace, tanto più, a posteriori, risulterà sproporzionata rispetto alla minaccia effettivamente concretizzatasi. È avvenuto così con la pandemia H1N1 del 2009. Alla sua diffusione limitata ha senza dubbio contribuito la risposta dell’Oms, che reagì prontamente senza attendere una valutazione della gravità della minaccia; ma ciò portò a forti critiche contro l’acquisto da parte dei governi di milioni di dosi di vaccino rivelatesi superflue, critiche che molti ritengono aver influito sulla negligenza nell’aggiornamento e l’implementazione dei piani pandemici riscontratasi in molti paesi, Italia inclusa. In sintesi, la precauzione sconta un evidente problema politico nell’attuale regime di governo, dato che si pretende di legittimarla su una base che la sua stessa applicazione contraddice e il suo successo di conseguenza punisce anziché premiare chi la applica.
Una minaccia come il Covid-19, scatenata da un virus sconosciuto, sembra mettere immediatamente fuori gioco la prevenzione. In effetti, presi alla sprovvista, la primavera scorsa si è adottato un approccio disciplinare: il lock down generale. Poi, a fronte dell’acquisizione “sul campo” di conoscenze sul virus, delle divisioni tra gli esperti, dei costi economici e sociali del lock down, delle rimostranze, cavalcate dall’opposizione, di una parte della popolazione e degli interessi organizzati, si è virato in direzione sicuritaria: contenere la minaccia. Si è deciso però di seguire una logica preventiva anziché precauzionale, cercando di proporzionare le misure alle evidenze (il famoso indice Rt), con il risultato di inseguire il virus anziché anticiparlo. Appena le misure cominciano a funzionare l’indice si abbassa, ma appena l’indice si abbassa le misure si allentano, con il risultato di ricominciare daccapo. La logica di governo liberale non è insomma stata messa in discussione anche se l’occasione, nella sua drammaticità e proprio per tale motivo, era propizia. Nel momento in cui scrivo si levano voci che chiedono di tornare al lock down generale, presentato non come delegittimazione finale ma come sospensione temporanea di tale logica. È interessante notare, per contro, che i paesi del sud-est asiatico che stanno registrando maggiore successo nel controllo della pandemia perseguono un tracciamento a tappeto dei contatti, il che corrisponde a un approccio di tipo precauzionale (lo stesso applicato a Vo’ Euganeo con lo screening integrale della popolazione).
Un’escatologia tecnologica: il vaccino
L’impasse politica delle democrazie occidentali dovrebbe a questo punto essere chiara: nel regime liberale vigente per dare legittimazione ai provvedimenti occorre mostrarne la proporzionalità rispetto ai dati, ma per arginare l’epidemia occorrerebbe muoversi precauzionalmente, usando i dati non per commisurarvi i provvedimenti ma come indicatore qualitativo per decidere di quanto spingersi in tale direzione, e con la certezza che, se sarà stata efficace, l’azione apparirà a posteriori eccessiva. Sarebbe necessaria una classe di politici, esperti e comunicatori eccezionali, di cui si stenta a trovare traccia, per riconoscere questo fatto e provare a spiegarlo anziché speculare sul malcontento e dividersi di fronte a una popolazione disorientata dal senso di irrazionalità espresso da misure che, cercando di mettersi al passo con una preda per questo stesso motivo ogni volta sfuggente, appaiono inadeguate nel preciso momento in cui vengono assunte.
La via d’uscita cui quasi tutti guardano speranzosi è un’escatologia tecnologica: il vaccino. Ma già si dice che anche questa soluzione non sarà risolutiva: il virus cambia, non si sa quanto può durare l’immunità né, qualora duri, quanto tempo ci vorrebbe per ottenere l’effetto desiderato su scala mondiale – la sola in grado di far ripartire l’economia globalizzata. Si evidenzia così che il regime effettivamente vigente, che possiamo definire tardo-neoliberale, non privilegia più la razionalità calcolativa. La precauzione si confronta non solo e non tanto con la mitologia del calcolo, per quanto come detto essa rimanga la base di legittimazione pubblica dell’azione di governo, ma anche e soprattutto con il suo contrario: l’incalcolabilità, la necessità (e l’ebbrezza) di navigare sull’onda dell’imprevisto, l’imprevedibile, la sorpresa. La logica securitaria sta prendendo infatti in modo sempre più marcato una piega peculiare, che alcuni hanno colto in campo militare nella dottrina della pre-emption, la “guerra preventiva”, e che trova nella preparedness il suo corrispettivo di elezione in campo sanitario (la minaccia di guerra batteriologica sta ovviamente a cavallo tra i due campi).
L’importanza della preparedness – intesa come prontezza di risposta all’attacco di sorpresa, a un’insidia che circola sottotraccia per erompere all’improvviso – è esplicitamente riconosciuta a partire dai documenti dell’Oms.2 La sua logica e le sue implicazioni sono al centro di crescente attenzione da parte di studiosi di varia estrazione3 e traspaiono da molti discorsi che si leggono e ascoltano in questi mesi (“il virus è qui per restare”, “dobbiamo già prepararci alla prossima pandemia”, ecc.). Non si tratta di contenere la minaccia con l’obiettivo di estinguerla (almeno virtualmente se non letteralmente, com’è accaduto con il vaiolo), ma di imparare a conviverci. I pre- e i non-moderni l’hanno sempre fatto con le malattie endemiche. Stavolta però l’idea è di modulare l’espressione della minaccia, trattenendola con un talismano, una forza, un katechon tecnologico. Si pensa così di cavalcare l’imprevedibile estraendone valore, sganciando l’obiettivo del dominio dalla tradizionale nozione di controllo,4 laddove l’approccio pre- e non-moderno al mondo era generalmente informato a saggezza, prudenza e umiltà (gli stessi criteri che ritroviamo nel principio di precauzione).
Da dove può nascere la spinta per una svolta?
In questa prospettiva vaccini, terapie e apparati ospedalieri assumono un significato diverso da quello cui siamo ancora abituati: tattico piuttosto che strategico. Non sono loro il fulcro della preparedness, ma la vigilanza tramite “sentinelle” biologiche, per esempio animali domestici collocati all’interfaccia tra società e natura, o meglio tra mondo antropomorficamente organizzato e mondo antropomorficamente “affetto”,5 in modo da evidenziare gli indizi di un’insorgente zoonosi. Dobbiamo allora chiederci se oltre a quelle animali ci sono, e quali sono, le sentinelle umane. La risposta è abbastanza facile. La pandemia minaccia innanzitutto chi rimane al lavoro, o lo utilizza, in modalità non-smart (manifattura, trasporti, assistenza e cura, generi di prima necessità, scuola in presenza ecc.). Sono queste le categorie cui élite politiche, intellettuali e imprenditoriali sempre più ristrette dall’impoverimento sociale e culturale dei ceti medi affidano la vigilanza, proteggendosi e al contempo vagliando se, come e di quanto correggere il sistema per mantenere lo status quo, arricchendosi ulteriormente grazie al fiume di denaro destinato a riversarsi sul recovery post-pandemico e, in prospettiva più ampia, alla transizione green & blue.
È solo da un’acquisita consapevolezza da parte delle sentinelle dell’emergenza e da chi, pur non in prima linea, è destinato a condividerne le sorti, che può venire la spinta necessaria a una svolta, primo e principale antidoto al virus che oggi ci affligge e a quelli che, senza tale svolta, sicuramente verranno. Ciò cui si è assistito sinora è una protesta scomposta, su cui la destra sta cercando di mettere l’ipoteca e in cui si mescolano istanze contraddittorie e si profilano figure di esperti in versione terrapiattista, molto utili ai media di regime in quanto permettono di distogliere l’attenzione dal problema che essa solleva. La domanda è se e chi riuscirà a tradurre questa opposizione ancora informe, animata non solo e non tanto da chi non sopporta qualche temporanea restrizione alle proprie comodità ma da chi sente di avere sempre meno da perdere, in un programma politico coerente, in cui magari coinvolgere la parte più politicamente equipaggiata di movimenti quali Fridays For Future ed Extinction Rebellion.
Luigi Pellizzoni – docente di Sociologia dell’ambiente e del territorio all’Università di Pisa e coordinatore del gruppo di ricerca POE (Politica Ontologie Ecologia).
1 Cfr. M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978), Milano, Feltrinelli, 2007.
2 Cfr. WHO, Pandemic influenza preparedness and response: a WHO guidance document, Geneva, World Health Organization, 2009.
3 Cfr. A. Lakoff, Unprepared. Global health in a time of emergency, Oakland, CA, University of California Press, 2017; F. Keck, Asian reservoirs, Durham, NC, Duke University Press, 2020: L. Pellizzoni, The time of emergency. On the governmental logic of preparedness, “AIS Journal of Sociology”, 16, 2020, pp. 39-54.
4 Cfr. L. Pellizzoni, Governing through disorder: neoliberal environmental governance and social theory, “Global Environmental Change”, 21, 2011, pp. 795–803.
5 Cfr. R. Wallace, Big farms make big flu, New York, Monthly Review Press, 2016.
da Comune-Info