Michael Daniels ha visto arrivare la tempesta ben prima che il covid-19 colpisse le carceri degli Stati Uniti. Direttore dei programmi giudiziari della contea di Franklin, in Ohio, Daniels sapeva bene che le due prigioni della contea, con circa 1.950 detenuti, non avrebbero mai potuto rispettare il distanziamento fisico necessario per arginare la diffusione del virus. Per questo a marzo 2020 ha fatto una domanda ai suoi collaboratori: come possiamo far uscire di prigione il maggior numero di persone il prima possibile?
Elizabeth Glazer, direttrice del dipartimento comunale per la giustizia penale, si è posta lo stesso problema a New York. La pandemia “ci ha costretti a ripensare il carcere”, racconta. “Abbiamo cominciato a chiederci se valesse ancora la pena mettere dietro le sbarre qualcuno con la consapevolezza di esporlo al rischio di contagio”.
Come temevano Glazer e Daniels, le prigioni affollate si sono rivelate una trappola mortale. Al momento nelle carceri di tutto il paese ci sono stati 120mila contagi e mille morti. Il progressivo aumento dei numeri ha portato gli esperti di salute pubblica a prendere in considerazione una proposta che gli attivisti per la riforma della giustizia penale portano avanti da tempo, finora senza successo: ridurre il numero dei detenuti. Ma dopo lo scoppio dell’epidemia questa possibilità si è improvvisamente concretizzata. “In tre settimane abbiamo realizzato proposte che erano rimaste bloccate per due anni”, racconta Daniels.
Secondo un’analisi dell’organizzazione non-profit Vera institute of justice, a livello nazionale il numero dei detenuti nelle prigioni gestite dalle autorità locali – quelle in cui finisce chi aspetta di uscire su cauzione, chi non può pagare la cauzione ed è in attesa del processo e chi deve scontare pochi mesi per reati non violenti – si è ridotto di circa il 25 per cento tra marzo e giugno. In alcuni posti, tra cui New York e la contea di Franklin, le autorità sono riuscite a ridurre del 30 per cento il numero di persone rinchiuse negli istituti che ospitano chi non è ancora stato condannato in via definitiva. La popolazione delle prigioni più grandi – che ospitano i detenuti condannati – è diminuita in modo molto meno consistente: un’analisi del Marshall Project e dell’Associated Press ha rilevato un calo dell’otto per cento a livello nazionale durante lo stesso periodo.
Misure diverse
In questo momento è in corso un grande esperimento nel campo della salute pubblica e in quello della giustizia penale. I primi studi hanno suggerito che le scarcerazioni anticipate hanno ridotto il tasso di contagi in alcuni istituti. Ma il problema del sovraffollamento non è stato risolto e gli attivisti chiedono un’ulteriore diminuzione del numero di detenuti. Una commissione convocata dalle National academies of sciences, engineering, and medicine (Nasem) sta mettendo a punto alcune linee guida per la scarcerazione in risposta alla pandemia. Il documento dovrebbe essere pubblicato a ottobre. Gli scienziati vogliono studiare le possibili conseguenze sociali di questo processo, inclusi i cambiamenti nei tassi di criminalità. “Abbiamo creato una società che si è affidata al carcere come soluzione ai problemi sociali, e di recente questo sistema è stato ridimensionato di circa il 30 per cento”, sottolinea Vincent Schiraldi, ricercatore di politica giudiziaria alla Columbia school of social work. “Ora dobbiamo studiare il fenomeno nel modo più approfondito possibile”.
I focolai negli istituti di pena evidenziano le disuguaglianze rispetto all’incidenza del virus. Tra gli afroamericani il tasso d’incarcerazione è più alto rispetto a quello tra i bianchi, e lo stesso vale per la durata delle condanne. Inoltre i detenuti presentano un tasso più elevato di malattie pregresse, un aspetto che li rende più esposti alle forme gravi di covid-19. Un altro elemento rilevante è il fatto che la salute dei detenuti è legata a quella della comunità che circonda i penitenziari. Il virus può entrare nelle strutture tramite i dipendenti (almeno 23mila persone che lavorano nelle carceri sono risultate positive) o essere portato dalle persone detenute per brevi periodi o trasferite da una struttura all’altra. Uno studio pubblicato a giugno su Health Affairs indicava che a metà aprile il 15,7 per cento dei casi di covid-19 documentati in Illinois era legato alle persone che erano transitate dalla prigione nella contea di Cook, a Chicago.
“Se ci preoccupiamo dei tassi di contagio nelle comunità allora dobbiamo prestare attenzione al sistema carcerario”, sottolinea Emily Wang, medico della Yale school of medicine e copresidente della commissione Nasem sulla scarcerazione.
Finora le scarcerazioni dovute alla pandemia non hanno provocato un aumento dei crimini
Le autorità hanno adottato diverse misure per ridurre la popolazione carceraria. La città di New York ha scelto di scarcerare soprattutto due gruppi di persone: chi era dietro le sbarre per aver violato la libertà vigilata e chi scontava condanne brevi. La contea di Franklin ha cancellato alcuni requisiti per uscire su cauzione, ha esteso l’uso dei dispositivi di monitoraggio elettronico – in modo da permettere a un numero maggiore di persone di aspettare il processo in casa – e ha disincentivato l’arresto per alcuni reati minori, optando per i mandati di comparizione.
A livello nazionale il calo della popolazione carceraria è stato accompagnato da una diminuzione degli arresti, probabilmente perché durante il lockdown sono stati commessi meno reati e gli agenti hanno cercato di evitare ogni contatto fisico non necessario, spiega Michael Jacobson, sociologo della City university di New York che ha analizzato i dati sulla criminalità e le attività della polizia in cinquanta città americane.
Per ridurre la popolazione carceraria negli istituti dove finisce chi è condannato a molti anni di carcere alcuni stati – tra cui California, Oklahoma, Illinois e Colorado – hanno evitato di trasferire i detenuti da quelli dove le persone scontano condanne lievi o aspettano di uscire su cauzione. I governatori hanno inoltre concesso la libertà vigilata ai detenuti più fragili e a quelli che avevano quasi finito di scontare la pena. Alcuni stati stanno cercando di migliorare l’assistenza per le persone con disturbi mentali, quella per chi soffre di dipendenze e altri servizi che contribuiscono a ridurre la popolazione carceraria. “L’approccio più efficace è semplicemente quello di non mettere le persone in carcere”, ha dichiarato il 20 agosto Annette Chambers-Smith, direttrice del Department of rehabilitation and correction dell’Ohio. “Basta interrompere il flusso”.
Alcuni ricercatori hanno cercato di capire in che modo la diminuzione della popolazione carceraria influisce sulla diffusione del virus. Wang e i suoi colleghi hanno valutato il numero R di riproduzione – che indica quante persone sono infettate da ogni nuovo positivo – nel corso di 83 giorni all’interno di una grande prigione (non hanno detto quale). Quando le autorità hanno ridotto la popolazione carceraria del 25 per cento e hanno spostato in celle singole due terzi dei detenuti, il numero R è passato da 8,25 a 1,72, come riportato in un documento pubblicato a giugno su medRxiv (dopo che la direzione ha fatto tamponi a tappeto anche ai detenuti asintomatici, il numero R di riproduzione è sceso al di sotto di 1, segno che il focolaio era sotto controllo).
In un altro studio, pubblicato il 21 agosto su Jama, l’epidemiologa di Harvard Monik Jiménez e i suoi colleghi hanno preso in esame tredici prigioni di contea in Massachusetts, scoprendo che quelle che avevano scarcerato più detenuti tra l’inizio di aprile e l’inizio di luglio presentavano tassi inferiori di contagio. Tuttavia, Jiménez sottolinea che i test limitati e inconsistenti hanno reso difficile stabilire con precisione quanto i rilasci anticipati avessero contribuito alla prevenzione dei contagi.
Poco contagiosi
Lauren Brinkley-Rubinstein, psicologa dell’università del North Carolina a Chapel Hill, sta cercando di prevedere in modo più accurato questi effetti sulla salute. Attraverso il Covid prison project, la sua équipe analizza i dati quotidiani sui contagi nei penitenziari statali. Brinkley-Rubinstein ha collaborato con i ricercatori di Stanford e dell’università di Miami prendendo in esame 103 penitenziari del Texas e valutando i tassi di contagio e decesso. I penitenziari classificati come “scarsamente contagiosi” erano quelli occupati solo all’85 per cento, si legge nel documento pubblicato a inizio settembre su medRxiv. Secondo i ricercatori, questa percentuale è il “dato di riferimento” per ridurre i contagi.
Insieme alla squadra di Wang e ai ricercatori di Stanford, Brinkley-Rubinstein vorrebbe combinare i dati sui contagi con le informazioni pubbliche sulla situazione dei diversi istituti e sulla distribuzione dei detenuti. “Posso ripetere all’infinito ‘riducete la popolazione carceraria’, ma il responsabile di un dipartimento penitenziario mi risponderà: ‘Va bene, di quanto? Su quali detenuti dovremmo concentrarci? Quanti ne dovremmo scarcerare?’. In questo senso è fondamentale essere precisi”.
Altri ricercatori vogliono osservare gli effetti della riduzione della popolazione carceraria sulla pubblica sicurezza. Decenni di ricerche suggeriscono che molti detenuti potrebbero essere rilasciati con un rischio minimo di comportamenti recidivi, sottolinea Jacobson. Tuttavia, la paura di liberare anche una sola persona che potrebbe commettere un crimine è il motivo per cui i ricercatori, prima della pandemia, hanno avuto poche opportunità di studiare gli effetti di una scarcerazione rapida e su larga scala.
Finora non esistono prove del fatto che le scarcerazioni dovute alla pandemia abbiano provocato un aumento dei crimini. Un’analisi dell’American civil liberties union condotta a luglio su 29 istituti penitenziari degli Stati Uniti non ha trovato nessun collegamento tra i rilasci e l’andamento della criminalità tra marzo e maggio. L’équipe di Glazer e quella di Daniels hanno rilevato un numero minimo di comportamenti recidivi tra i detenuti scarcerati in anticipo dalle prigioni di contea di New York e Franklin. Il criminologo Daniel Nagin e la statistica Amelia Haviland dell’università Carnegie Mellon vogliono documentare l’impatto della pandemia sulla popolazione carceraria e analizzare i cambiamenti nel numero dei crimini in relazione ai rilasci.