Sarà presentato il 7 settembre a Venezia l’ultimo film di Ascanio Celestini, intitolato “Viva la sposa” e dedicato al racconto di una serie di storie di vita vissuta che si incrociano lungo le strade di Roma, quelle in cui Celestini è nato e vive. Bisognerà, quindi, aspettare ancora qualche giorno per conoscere impressioni ed opinioni di critici ed addetti ai lavori e decidere – ammesso che si dia peso a quello che dice la critica – se andare o non andare a vedere il film al cinema.
Un giudizio, severo, anzi severissimo, duro, negativo e inappellabile, però il nuovo film di Celestini lo ha già ricevuto: “Il suo film fa schifo, signor Celestini, glielo diciamo senza averlo visto, senza mai aver fatto gli attori, senza mai aver fatto un minuto di regia o di teatro. Il suo film è orrendamente dozzinale e gli attori che lo interpretano non sanno recitare. Eppure noi non siamo attori… la sua opera, scusi il termine un po’ forte, fa cagare… lei recita come un cane e dietro la macchina da presa fa ancora più pena”.
La bocciatura è firmata Franco Maccari, Segretario Generale del Coisp – Coordinamento per l’indipendenza sindacale delle forze di polizia.
Ed è una bocciatura provocatoria – o, almeno, anche se si tratterebbe di una magra consolazione, auspicabilmente tale – contenuta in una lettera indirizzata allo stesso regista e pubblicata online nei giorni scorsi.
“Abbiamo appreso – inizia la lettera – da notizie di stampa che nel suo film, che sarà presente alla 72^ Mostra Internazionale di Arte Cinematografica di Venezia, vi sono riferimenti al caso di Giuseppe Uva [il carpentiere morto il 14 giugno 2008 dopo un fermo di polizia e successivo Tso, il trattamento sanitario obbligatorio in una caserma di Varese, ndr]. L’attenzione per un tragico fatto di cronaca – prosegue la lettera – riteniamo serva a far conoscere un punto di vista, un’opinione, una visione dei fatti che, inevitabilmente nell’opera cinematografica, comporterà anche una presa di posizione in una vicenda controversa che è tutt’ora, giudiziariamente, ancora aperta”.
Ma il senso della lettera è spiegato più avanti, dove il Segretario generale del sindacato di polizia scrive: “Ci risparmi le manfrine su tutti coloro che sono morti nelle mani dello Stato perché ne sono pieni i titoli dei giornali, i polmoni di Manconi e soprattutto di chi si dimostra tanto solerte e definitivo nel giudicare qualcosa che non sa nemmeno come funziona”.
Eccola la preoccupazione che ispira la lettera e la “giustifica”: la paura che il film di Celestini – che l’autore della lettera non ha ancora neppure visto – rappresenti un j’accuse verso l’operato delle forze di polizia nel caso di Giuseppe Uva, dando fiato ad un dibattito aperto da anni sugli effetti collaterali di talune attività di pubblica sicurezza e su alcuni presunti – ed in taluni casi accertati – eccessi ed abusi nell’uso della forza o errori commessi da chi indossa la divisa.
E, infatti, poche righe più avanti il Segretario Generale del sindacato, spiega anche la dimensione provocatoria del giudizio severo espresso sul film di Celestini che non ha visto: “Stiamo solo esprimendo un’opinione, disinformata, completamente avulsa da una conoscenza reale ed anche piena di pregiudizi: quindi, secondo i canoni correnti, perfettamente legittima e legittimata a diventare autorevole, basta che faccia comodo… E se riuscissimo a farla dilagare, raggiungendo i canali televisivi mainstream… lei avrebbe la reputazione distrutta e dovrebbe trovarsi un lavoro diverso”.
L’argomento è delicato e occorre essere – o provare ad essere – più chiari ed obiettivi possibile in quel che si scrive per evitare ogni fraintendimento. Ed è per questo che, forse, val la pena di dire subito che le forze di polizia, tutte – senza nessuna eccezione – svolgono nello Stato e per lo Stato una funzione irrinunciabile per la sua sopravvivenza e per la sopravvivenza della democrazia e che nella stragrande maggioranza – probabilmente la quasi totalità – le donne e gli uomini che ne fanno parte meritano di essere considerati eroi moderni perché, nel quotidiano, mettono spesso a rischio la loro vita, più che per stipendi obiettivamente modesti, in nome di una radicata convinzione di contribuire così alla difesa di valori e beni comuni. Premesso questo, però, non si può non scrivere con altrettanta chiarezza che la lettera del sindacato di polizia a Celestini è brutta – non scriverò che “fa schifo” come pure in essa si scrive del film di Celestini – superficiale – e non scriverò “orrendamente dozzinale” – e, soprattutto, democraticamente difficile da digerire.
Ed ecco le motivazioni di un giudizio tanto severo, naturalmente opinabile ma non aprioristico come, invece quelli – provocatoriamente ma non troppo – espressi nella lettera. Tanto per cominciare la lettera sembra contestare che Celestini – e con lui, naturalmente, ogni altro autore, regista e persino giornalista – racconti storie ed esprima opinioni sull’operato delle forze di polizia, difettando delle necessarie competenze.
Quasi che un regista, un autore o un giornalista prima di scrivere, di raccontare o esprimersi su un fatto non usino, per definizione, documentarsi, acquisire elementi e sforzarsi di comprenderne le dinamiche. E’ una contestazione chiara nella dichiarazione della natura provocatoria della lettera: “Stiamo solo esprimendo un’opinione, disinformata, completamente avulsa da una conoscenza reale ed anche piena di pregiudizi” proprio come – anche se questo il segretario generale del sindacato di polizia lo lascia solo intendere – quella che Celestini esprime nel suo film. Naturalmente non è così o, almeno, non vi è ragione per ritenere che sia così.
Mentre, infatti, il giudizio che il sindacato di polizia esprime sul film di Celestini è, per certo, “disinformato”, “avulso da una conoscenza reale” e “pieno di pregiudizi” visto che l’autore della lettera dichiara candidamente di non aver ancora visto il film e di avere una serie di pregiudizi sul regista in ragione di quanto da lui scritto in passato, normalmente un regista prima di fare un film – così come un giornalista prima di scrivere un pezzo – si documenta, studia, prova a capire.
Poi magari si sbaglierà anche o si sosterrà una tesi non condivisa dai più o, persino, fondata su presupposti che risulteranno errati. Può succedere naturalmente. Tutto questo, però, è parte integrante ed ineliminabile di quella libertà di manifestazione del pensiero, cronaca e critica che è pietra angolare della nostra democrazia e che rientra, a pieno titolo, tra i valori fondanti dello Stato che le forze di polizia dovrebbero difendere e proteggere.
E questo conduce alla seconda motivazione del giudizio severo sulla lettera del sindacato di polizia: nessuno più della Polizia dovrebbe aver chiaro che la difesa della democrazia passa per il rispetto e la tutela del principio di legalità. Ed allora nessuno meglio del segretario generale di un sindacato di polizia dovrebbe aver chiaro che esprimere un’opinione – in un articolo di giornale, in un film o in qualsiasi altra opera dell’ingegno – è legittimo nei limiti in cui contenuto e toni dell’opinione espressa non siano diffamatori. E nessuno meglio del segretario generale di un sindacato di polizia dovrebbe aver chiaro che della diffamatorietà o non diffamatorietà di un’opinione decidono – ed è giusto che decidano – solo i giudici.
Mentre, dunque, sarebbe stato ragionevole e democraticamente sostenibile che il sindacato di polizia, visto il film e rintracciativi, al suo interno – ammesso che vi siano – elementi di diffamatorietà contro l’immagine della polizia, querelasse Celestini, è democraticamente difficile da digerire che un suo rappresentante prenda carta e penna e spari a zero contro un film che non ha ancora visto solo perché, forse, potrebbe proporre un ritratto indesiderato dell’operato delle forze di polizia, peraltro nel singolo episodio oggetto di narrazione.
Nessuno, in democrazia, dovrebbe contestare il diritto di chicchessia di dire ciò che pensa nei limiti, naturalmente, di ciò che consente la legge ma che a farlo sia addirittura il rappresentante di un sindacato di polizia è davvero grave ed antipatico.
Guido Scorza da il fatto quotidiano