Puntata 2 – Lavora e Crepa 2024. Estrazione-produzione-circolazione- consumo. Nell’economia interconnessa, la velocità di circolazione aggiunge valore alle merci.
di Renato Turturro
Sono caduto, non importa come. Avrò fatto un’azione fuori dal prevedibile, ci sarà una qualche ragione tecnica, ma io volevo solo tornare a casa. Tutto qui. Sembra stupido, vero?
Viaggio per due mesi di fila da solo, mangio e dormo dove capita, mi fermo per riposare e rispettare le pause. Ogni quattro ore e mezza, non più di nove ore di guida al giorno, prorogabili a dieci. Novanta ore di guida in due settimane. Non più di sei giorni consecutivi di lavoro, al termine dei quali è previsto un riposo settimanale. Tutto giusto, ma quando mi fermo, resto comunque lontano da quello che mi fa stare bene: la mia famiglia, il mio paese, i rumori, i suoni, i profumi di una giornata qualsiasi. Mia moglie, mio figlio. Sono in pausa dal lavoro, ma il mio posto di lavoro è la strada; quindi, è come se non smettessi mai di lavorare. Trasporto merci da stabilimento a stabilimento, di magazzino in magazzino, partecipo anche io alla catena del valore. Senza quelli come me non sarebbe possibile la produzione. Neppure le vostre vacanze lussuose, le vostre ville, le vostre azioni in borsa, i vostri giochi societari. Tanti come me, isolati in una cabina che chiamamo “casa”, compiono migliaia di chilometri ogni settimana, a volte guidando letteralmente bombe ambulanti.
Il mio contratto ha una paga base che farebbe inorridire qualsiasi lavoratore europeo. Il resto mi viene dato “a parte”, per ogni giorno che passo in strada e per ogni tempistica di consegna rispettata. Per conto del mio capo, guido motrici di altre società che trasportano bilici e container di altre società ancora, con dentro merci di ulteriori altre, in una giungla di contratti dove il più forte è quello che impiega meno mezzi e uomini, meno risorse possibili, in modo da scaricare i costi sugli altri, sugli ultimi elementi della catena economica, conquistandosi il margine di profitto. È questo il gioco. Io sono una pedina di questa scacchiera apparentemente disordinata e scomposta.
Vengo da quella parte di Europa ingannata da false aspettative. Un bacino di reclutamento del lavoro subalterno, sottopagato e sfruttato. Tra la decadenza di un regime e le bugie del libero mercato: un paradiso per chi vuole far soldi giocando tra le maglie della legge.
Non posso parlare, sono intubato e i miei occhi sono chiusi, non c’è traccia di alcuna attività cerebrale, eppure sto pensando a come sono finito a fare questo lavoro. Avevo studiato in un istituto tecnico, mi sono diplomato, volevo mettere qualcosa da parte subito, vivere autonomamente. Poi, ho incontrato lei, l’ho conosciuta al paese durante il Dragobete, quando tutti i ragazzi rincorrono le ragazze a ridosso della primavera. Ci è voluto un po’ per riuscire a parlarci, non mi piaceva rincorrere le ragazze, sono timido. Alla fine, eccoci, ci siamo avventurati nel mondo senza troppe domande. Ho accettato questo lavoro pensando di farlo per un po’ di anni e poi smettere. Magari prendere un pezzo di terra da coltivare in pace, o forse tentato dal fare soldi, aprire una ditta tutta mia e smetterla di correre ovunque. Padrone di me stesso. Invece no. Eccomi qui. Quando stai dietro a dei ritmi imposti, smetti di pensare e agisci in automatico, sviluppando un istinto più orientato alle meccaniche del lavoro che alla tua sopravvivenza naturale. Gli stimoli sono condizionati e scanditi da bolle e tempi di consegna, chiamate e messaggi dei responsabili. Un qualsiasi evento non previsto dal foglio di marcia è un evento che ricade su di me. Penali per il mio capo che si traducono in decurtazioni e richiami per me.
Mi ritengo esperto, lavoro da molti anni. Vi chiederete come ho fatto a compiere questa sciocchezza. Era forte la voglia di tornare e ho avuto la percezione che, salendo in cima al container montato sul rimorchio del camion, avrei accorciato il tempo che mi separava dal ritorno a casa. Ero stanco, avevo appena finito un viaggio e me ne hanno proposto subito un altro. Volevo dire di no, ma in fondo si trattava di rimandare di 24 ore la mia partenza per il ritorno a casa. Perché ho accettato? Non lo so, se per i soldi o per paura di dire no, non so più com’ è andata. Ora sono qui, sento che qualcuno si sta prendendo cura di me, nonostante tutto. L’infermiere e la medica parlano, non distinguo le parole che si dicono, l’O.S.S. mi lava, mi gira sul letto, evita che mi si formino piaghe. Che vita farà anche lui ogni giorno? Mi sottopongono a infiniti esami, provano, fino alla fine a scongiurare con degli interventi chirurgici l’irreversibilità della diagnosi temporanea. Un sistema che prova a ripristinare il sistema del mio organismo. Chissà se hanno avvertito mia moglie, non posso muovermi e non so se sto pensando realmente o sto sognando.
Non so se riabbraccerò i miei, se potrò dire loro le parole non dette. Ho paura, ma non posso dirlo a nessuno. Sono qui, vorrei poter cambiare tutto questo. È stato un secondo che mi ha cambiato la vita. Ho ammirato i boschi della Slovenia, le coste greche, i valichi alpini e i Pirenei, la campagna dei Paesi Bassi e le strade della Germania. Ho conosciuto gli impianti dei petrolchimici e la malinconia dei porti, la ruggine e l’umidità, sentito il fuoco dell’asfalto e gli autogrill nelle notti d’estate, la puzza del fumo, il rumore dei motori, il freddo degli inverni, la pioggia. Ho vissuto la fretta e i ritardi, affrontato i guasti, ma volevo continuare a imparare dai suoi occhi l’essenza del mondo. Invece sono qui, non so se vivo o morto. In fondo, volevo solo tornare a casa.
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