#3Dicembre. L’assedio in costumi d’epoca e le rovine reali
- dicembre 06, 2014
- in lotte sociali, riflessioni
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T’invidio, turista che arrivi, t’imbevi
de Fori e de scavi, poi tutto d’un colpo
te trovi Fontana de Trevi tutta pe’ te!
Avevamo fatto croce nera ad aprile. Ci eravamo ripromessi il più solenne dei “Mai più”. Ci eravamo stretti a congrega serrata: “Ripensiamo ai territori e a Roma solo da turisti”. Ma l’autunno fa cadere le foglie e muta le opinioni. Così, testiamo l’asfalto da montagne russe della Campobasso. Le nuvole bianche assediano i monti del Molise e ci rimandano un’istantanea di ciò che dovrebbe essere Ottobre.
Ma siamo a Dicembre. Domenica c’è stata l’assemblea a Napoli. L’idea contaminante dello Sciopero sociale. Sul tavolo lo SbloccaItalia, la Buona scuola e, soprattutto, il Jobs act. La meticolosa distruzione delle garanzie residuali del residuale mercato del lavoro.
Oggi al Senato. Due giorni scarsi per organizzare la presenza. Come tra le nuvole, va di moda l’assedio. Cingere Palazzo Madama in un caldo abbraccio di popolo. Questa è la consegna. La digos ha intimidito il nostro noleggiatore di furgoni preferito. Era già capitato, ma stavolta l’hanno spaventato sul serio. Le visite negli uffici, i topi fra le carte, le bolle, le fotocopie delle patenti di guida. Non è piacevole. Ed è ridicolo. Ma il ricatto è un ingrediente del gioco.
Lo troveremmo astuto, se stessimo giocando. Non abbiamo insistito. E ci siamo stretti in due abitacoli. È bastato gonfiare una ruota pigra. E la strada ha ripreso a scorrere sotto la spinta della nostra volontà: ricomporre un fronte di lotta autonomo, dal basso. Ridare vita al conflitto, riprendendo a tessere il filo dai segnali positivi degli ultimi due mesi. A disposizione! E il veto definitivo su Roma salta dopo sette mesi. Non ci facciamo illusioni numeriche. Due giorni di organizzazione sono davvero pochi. Tutto dipenderà dalla risposta della capitale.
Ma i presagi non inducono al pessimismo. Tutt’altro. Domenica, all’Albergo Filangeri, si respirava un’aria tonificante. Peroni grandi a Venafro, a rinverdire il rito. Poi la celebrata Autostrada del sole. Il convoglio napoletano è già alla barriera di Roma Sud. Siamo in ritardo di almeno 60 chilometri. Tutta colpa dei vizi. Del cornetto all’alba e del caffè sport. Appuntamento alle 10 al Colosseo. Ma figuriamoci! Fossimo autonomi svedesi, ci crederemmo davvero. Ma prima delle 11 non succederà nulla, garantito. Sguardo al display del navigatore: ce la facciamo. Magari appena a tempo, ma ce la facciamo. La pioggia, fredda come da prassi, inonda il parabrezza. Superlavoro per i tergicristalli.
Un sms ci informa che al raduno ci sono meno di trecento persone. Non lasciamo che la perplessità s’imponga. Anche se, è indubbio, quando non hai il numero, conta il gesto. Uscita. Coda sul Raccordo, ma la nostra è l’indifferenza di chi esce sulla Tuscolana. La stazione Anagnina è una cappa di grigio sotto il cielo. Grigio. L’appuntamento è cambiato. Piazza di Spagna e di lì proseguire fino a Sant’Andrea della Valle. “Sapete che in quella chiesa è nato il Barocco italiano?”, “Ah, sì?”, “Sì”. La metropolitana. Il silenzio. Altro aggiornamento: i napoletani sono stati individuati e “scortati” fino alla zona del raduno. Sì, “scortati”. Un centinaio di poliziotti, ad aprire e chiudere la delegazione. “Stanno come i pazzi”. È chiaro: l’intento è impedire sul nascere una qualsiasi contestazione al governo Renzi e al suo operato. Peggio ancora, ritengono necessario soffocare i contestatori senza giungere al pestaggio delle linee, alla piazzata che, in ogni caso, porterebbe ossigeno ai contestatori. Smorzare il principio d’incendio senza mai concedergli aria pulita.
Inoltre, i napoletani sono più di centocinquanta persone. Sarebbe stato deleterio lasciarli liberi di scorrazzare in pieno centro. Noi siamo dieci. È cosa diversa. Ma ugualmente decidiamo di sbucare a Barberini. Alla luce, seguendo la scia di un marciapiede. Una cupola segnala l’obiettivo. Svoltiamo a sinistra, poi a destra, nelle stradine del Tridente. Ci guardano, da sopra gli scaldacolli azzurri, gli sbirri schierati a piazza Colonna. Ci guarda la digos, a due passi da Piazza Navona. Noi camminiamo, sgamoni come non mai. Ma, a due passi dalla meta, notiamo i blindati. Il passaggio, se non proprio chiuso, è osceno. Quindi, nuova deviazione. Nuovo calcolo mentale del percorso. Il Pantheon. Il disagio. Che arriva fin sotto i nostri giubbini e le felpe. I tavolini all’aperto, gli schiamazzi, le risate. O il lavoro dei corrieri espresso. Tutto attorno a noi ci colpisce con la normalità di uno schiaffo. L’ordinario. La vita che impone il suo incedere, nel lavoro e nello svago. Mentre noialtri – a difesa di chissà che – scivoliamo tra la gente come soldati di ventura in un paese neutrale. Convinti che oggi sia un grande giorno, un giorno di battaglia campale. Per i diritti di tutti. Mentre la quotidianità tutt’attorno ci sorride beffarda. “È solo un brutto sogno, – sembrano dirci quelle mani che reggono tazzine espresso, quelle dita che scattano foto – tranquilli, è solo un brutto sogno!”. Non dev’essere stato così ai tempi di Scelba. O prima ancora, alle rivolte per il pane. Ma qui bisogna avanzare senza pensarci troppo. Che siamo pure a due passi dai monarchici della Guardia reale. Un vicolo lasciato libero. Ci fiondiamo dentro. Sbuchiamo a Largo Argentina. E quel che ci si apre alla vista è uno spettacolo onirico. Un prisma di irrealtà che moltiplica il suo raggio tutt’attorno. Una favola dell’orrore per bambini.
I manifestanti sono sul lato del Ghetto. Circondati. Le camionette, tante e determinate, chiudono ogni varco. Da una parte all’altra. I poliziotti, i finanzieri appiedati, spengono ogni velleità. Dall’interno del vascone per pesci prigionieri si urla: “Corteo, corteo!”. Attorno, sull’intero perimetro della piazza, spettatori affacciati. Pubblico delle grandi occasioni per le scimmie al circo. Tutti guardano quella scena, così discostata dalla realtà da sembrare la rievocazione di un ricordo. La rappresentazione di una battaglia in costumi d’epoca. Il traffico è bloccato, l’aria è statica. A destra, sul marciapiede della Feltrinelli, lo struscio dei passanti è così indaffarato che solo un gruppo di ragazzine dell’Est, fuori da una gelateria, pare avvedersi di noi. Noi. Fermi all’angolo, con la digos a farci da corona. Tra palco e realtà. Ci avviciniamo alla balaustra. Alle rovine. Due compagni ci ragguagliano di ciò che ci siamo persi girovagando per le stradine. Niente, in sostanza gli sbirri – coordinati da un elicottero onnipresente – si sono agilmente mossi in blocchi per contenere il nascente corteo, seguendoci passo dopo passo e approntando contromisure in tempo reale. L’imperativo di non far lambire il Senato è mantenuto anche nelle stradine attigue. Un lancio di uova ha portato già ad una prima carica. E quell’acquario circondato, lì in fondo, ne è il risultato statico. Increduli, guardiamo dipanarsi sotto i nostri occhi – per la prima volta dal vivo – quel braccino metallico che serve a farsi meglio i selfie. La quintessenza della solitudine. Restiamo a guardarlo. Siamo dei provincialotti. Turbati, però. Perché quel che spaventa non è l’idea di viaggiare soli, senza neppure qualcuno con cui scattarsi una foto.
È che quel gruppo lì in fondo, quello dei manifestanti stretti nella morsa dei blindati, non supera le quattrocento unità. Cristo! “Ma se duecento vengono da Napoli? Dove sono gli studenti? Dove sono i centri sociali?”. E, di nuovo, la domanda delle domande, reiterata negli anni: “Dov’è Roma?”. Già, dov’è? Che ne è stato? Piccoli provinciali idealisti. Carne da macello dell’etica a tutti i costi. Questo siamo! Creduloni, come bambini della steppa alla vista di Pietroburgo. Realmente convinti che oggi qui avremmo trovato la mobilitazione unitaria che non c’è mai stata.
Realmente innamorati di quell’idea epica della compagneria che s’assume per intero l’onere della difesa di tutti. Stupidi, mille volte stupidi! Amanti traditi. Ma come abbiamo potuto pensare che oggi sarebbero andati in sciopero gli interessi, gli affari, la realpolitik, gli scazzi, le infinite diatribe teologiche, di questa cazzo di capitale per far posto allo scontro di classe nella sua purezza geometrica? Come abbiamo fatto ancora a fidarci di questi? Il compagno ci guarda: “Si sono spaccati”. Viene da ridere. O da piangere. Roma non fa altro che spaccarsi. È la cosa che le abbiamo visto fare meglio. Anzi, forse è l’unica cosa che le abbiamo visto fare. Il compagno raccoglie lo sfogo e non ci risponde. Siamo provinciali, non capiamo la complessità. Siamo turisti. Non saremo mai nulla di diverso. Turisti. Provinciali.
Col sacchetto d’emozioni da strappare alla Città eterna. E i caschi neri che invogliano la digos come la cioccolata le marmotte. Non vale la pena replicare ai nostri capricci. Quando una cosa è complessa, si sa… Una telefonata nel mucchio: “Dovremmo sfondare gli sbirri alle spalle per ricongiungerci a voi e, con voi, prenderci le botte. Non crediamo valga la pena”, “Ma no, restate lì. Tanto, non servirebbe a niente”. Tornano alla mente scene mai vissute. I foggiani riparati sui monti del circondario che guardano i bombardieri inglesi distruggere le proprie case. Impotenti. Arrabbiati. Frustrati. La gente – nei secoli assetata di sangue – si domanda con bramosia quand’è che caricheranno.
Quando gli sbirri cominceranno a defoliare a manganellate quell’assembramento pluviale. Noialtri, dall’altra parte dalla piazza, guardiamo i gatti tra le rovine. Le rovine di Roma. Siamo stati individuati. Ci seguono negli spostamenti. Conviene andare. Tanto, farsi prendere qui, senza poter combattere, sarebbe un insulto alla logica. Un ultimo sguardo ai compagni che trattano un corridoio umanitario alla polizia di Renzi. Volevamo assediare il Senato.
Siamo stati assediati. Per colpa delle nostre divisioni, degli interessi di parte, della miseria umana. Da troppa gente che usa i compagni come i papi usavano le crociate. Di fronte a noi, una città nuovamente sconosciuta. Dietro di noi, gli agenti in borghese. Ad accertarsi che il nostro ripiegare non sia una tattica militare. No che non lo è, coglione! Magari lo fosse! Dinanzi alla Fontana di Trevi in restauro, siamo finalmente soli. Ci godiamo il nulla. Un cellulare trilla. I compagni sono stati caricati. Ci sono tre feriti e due fermati. Chissà se la gente si è divertita.
Morale: dare nuova centralità al Sud. Ai rapporti tra le periferie. Al consolidamento delle cause locali, da innalzare e rilanciare. A ondate. Non abbiamo altre vie, se non vogliamo tornare ad dare credito e fiducia a chi, presto o tardi, tornerà a pugnalarci.