È una corsa contro il tempo quella per salvare gli otto detenuti mapuche del carcere di Angol che, già in sciopero della fame da 117 giorni, hanno smesso da lunedì anche di ingerire liquidi.
Una misura estrema – a cui si sono uniti nei giorni successivi anche otto mapuche del carcere di Lebu – adottata per protestare contro l’assenza di risposte da parte dello Stato cileno rispetto all’applicazione effettiva al codice penale della Convenzione 169 dell’Organizzazione internazionale del lavoro sui popoli indigeni.
IL 9 AGOSTO IL MINISTRO della Giustizia Hernán Larraín si era impegnato a dare risposta, entro 12 giorni, alla richiesta dei mapuche di un dialogo di alto livello mirato a individuare una soluzione per i detenuti già condannati e per quelli in custodia cautelare, in cambio di un’assoluta riservatezza sui negoziati e della sospensione dello sciopero della sete che i prigionieri politici avevano appena intrapreso.
Al solito, a fronte del rispetto da parte mapuche delle condizioni dell’accordo, il ministro non ha mantenuto la parola: scaduti i 12 giorni, nessuna risposta è giunta dal governo. Da qui la decisione dei detenuti, tutti in condizioni assai critiche, di riprendere lo sciopero della sete.
Grande preoccupazione per la sorte dei 16 mapuche (e anche degli altri 11 in sciopero della fame) è stata espressa dal machi Celestino Córdova che il 18 agosto, dopo 107 giorni, aveva terminato lo sciopero della fame dopo aver raggiunto un accordo, benché parziale, con il governo.
Esigendo dallo Stato il rispetto degli accordi, l’autorità spirituale ha ringraziato il popolo mapuche e quello non mapuche per la solidarietà espressa, invitando a promuovere marce e atti di protesta in appoggio ai prigionieri politici.
NELLA CRISI SONO ENTRATI a gamba tesa anche i camionisti, che giovedì hanno iniziato uno sciopero per esigere la rapida approvazione, in funzione prevalentemente anti-mapuche, dei progetti di legge repressivi varati dal governo Piñera durante le proteste dei mesi scorsi: dalla cosiddetta legge «anti-incappucciati» a quella sulla presenza di militari a guardia della «infrastruttura critica», fino a un inasprimento della già severa legge antiterrorismo promulgata durante la dittatura di Pinochet.
Uno sciopero che – malgrado la minaccia di paralizzare il paese in piena pandemia e con la disoccupazione alle stelle grazie alla contestatissima legge di «protezione» dell’impiego – ha incontrato la totale comprensione del governo che, descrivendo i potenti camionisti come vittime dei disordini provocati dai mapuche nell’Auracanía, ha già fatto sapere che lunedì «sarà trovata una soluzione». E si può star certi che in questo caso manterrà fede ai propri impegni.
È così, con minacce e pressioni a favore del pugno di ferro contro ogni dissenso, che la destra si sta preparando al plebiscito sull’elaborazione di una nuova Carta costituzionale del prossimo 25 ottobre, non risparmiando alcuno sforzo per blindare lo status quo: non solo attraverso il potere di veto garantito dalla trappola della maggioranza dei due terzi, ma anche limitando il più possibile la portata della discussione, a partire dal divieto di modificare i trattati internazionali e dalla pretesa di impedire anche il dibattito sul modello economico.
SI MOBILITA TUTTAVIA anche il movimento di protesta, che – pur continuando a indicare come vera soluzione la realizzazione di uno sciopero generale continuato e a oltranza per ottenere la caduta di Piñera e imporre un’Assemblea costituente libera e sovrana – è deciso a buttarsi nella mischia, prendendo parte al voto, al fine di aprire quante più crepe possibili nel muro di contenimento innalzato dalle forze politiche per bloccare ogni cambiamento reale. Magari, chissà, creando una forza politica alternativa per presentare i propri candidati al processo costituente.
Claudia Fanti
da il manifesto