«Ho 69 anni e mai nella mia vita ho visto un bombardamento così, e ne ho viste di guerre. Ma nessuna come questa. Vorrei davvero andarmene, ma non posso». È la testimonianza ad al Jazeera di un uomo dopo una delle notti peggiori che Rafah ricordi.

NON RESTA niente delle esplosioni di gioia di qualche ora prima, di lunedì pomeriggio, quando il sì di Hamas alla tregua aveva fatto sognare a Gaza un po’ di sollievo. Al posto della speranza, è partita la marcia su Rafah. La prima notte ha significato una pioggia di bombe e 24 uccisi (sei bambini), il giorno dopo l’occupazione israeliana del valico con l’Egitto: è la morte lenta, quella per fame e mancanza di medicine, perché il valico chiuso vuol dire che non entra carburante per i camion e che non esce nessuno, né malati né feriti.

Da Rafah entra la benzina, da Kerem Shalom gli aiuti umanitari. Israele ha chiuso anche quello, «ragioni di sicurezza», espressione che i palestinesi conoscono bene: non vuol dire niente. Da 24 ore Gaza è definitivamente sigillata, impermeabile.

Il valico è sotto il controllo della 401° brigata dell’esercito israeliano. L’offensiva via terra si muoverà su due direttrici, da est e da sud, lì sono dispiegati i carri armati. La loro presenza, da sé, ha generato il panico tra il milione e mezzo di palestinesi che in questi mesi è stata spinta sempre più giù dagli ordini di evacuazione, confusi e disordinati.

I volantini che ordinano di spostarsi verso la costa, ad Al Mawasi dove l’esercito ha messo su un ospedale da campo e delle tende, cadono dai caccia israeliani, dicono di evacuare i quartieri orientali e moltiplicano terrore e confusione. Perché non si sa più dove andare: «La gente si muove in zone che spera sicure, prega che siano sicure», scrive da Rafah il reporter Hani Mahmoud.

Nel pomeriggio di ieri pesanti raid hanno colpito i quartieri meridionali ma anche il centro della città: è stata presa di mira una moschea, a poca distanza da un mercato. Intanto su X le forze armate israeliane hanno scritto che l’occupazione del valico è giunta dopo aver ricevuto informazioni di intelligence secondo cui verrebbe «usato per scopi terroristici».

Nessuna prova, ma in contemporanea Tel Aviv ordinava alle agenzie dell’Onu di andarsene da Rafah. «Israele ha condannato la gente di Gaza a morte», ha detto ieri Hisham Edwan, portavoce della Gaza Border Crossing Authority.

LA SUA È un’opinione ampiamente condivisa, da ong, istituzioni internazionali, governi. L’Unrwa, l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, ha definito la chiusura dei valichi una «catastrofe»: «Nessun aiuto è stato distribuito negli ultimi due giorni. E non entra carburante: significa che i camion non si muovono, che gli impianti di desalinizzazione non funzionano, che non c’è elettricità». Le condanne non frenano il governo israeliano.

Nel tardo pomeriggio il primo ministro Netanyahu ha rivendicato la scelta di lanciare l’offensiva: «Abbiamo issato le bandiere israeliane sul valico di Rafah e rimosso quelle di Hamas. L’ingresso a Rafah serve ai due obiettivi della guerra: il ritorno degli ostaggi e l’eliminazione di Hamas». Nelle stesse ore al Cairo atterrava un team di negoziatori di «medio livello», quelli di alto livello – dice Israele – partiranno solo se in presenza di un accordo accettabile. Ma è lo stesso Netanyahu a chiudere i pochi spiragli aperti dalla mossa (strategicamente vincente) del movimento islamico, definendola un tentativo di impedire l’attacco a Rafah: «La proposta di Hamas è molto lontana dalle richieste israeliane».

IL MINISTRO della difesa Gallant, che con Netanyahu condivide la paura per la possibile emissione di mandati d’arresto della Corte penale internazionale, ha detto lo stesso mentre visitava le truppe a Rafah: «Andremo avanti e rafforzeremo le operazioni. Succederà ovunque nella Striscia, a sud, al centro e al nord».

Diversa la lettura della Casa bianca che riporta della promessa di Israele di limitare l’operazione su Rafah e di riaprire presto il valico (che, secondo la stampa israeliana, sarebbe affidato a una non meglio precisata compagnia privata Usa: gli affari al tempo della guerra). Washington non ha fatto mai mistero della contrarietà all’offensiva, ma non ha comunque messo in dubbio l’invio di armi a Israele.

Come del resto non ha fatto la Germania che ieri, con la ministra degli esteri Baerbock, ha condannato con inattesa durezza l’alleato: «Un milione di persone non può semplicemente svanire nell’aria. Hanno bisogno di protezione». Condanne anche dall’Ue e da Amnesty, mentre l’Onu parla di crimine di guerra. L’inascoltato – da mesi – segretario generale Guterres implora gli alleati di Israele di fermarlo: «I civili non hanno sofferto abbastanza? Un assalto a Rafah sarà una catastrofe umanitaria». Preghiera nel vuoto.