Fabrizio De André nasce il 18 febbraio 1940 a Genova (Pegli).
Nella primavera del 1941, il padre, il professor De André, antifascista, visto l’aggravarsi della situazione a causa della guerra, si reca nell’Astigiano alla ricerca di un cascinale ove far rifugiare i propri familiari e acquista nei pressi di Revignano d’Asti la Cascina dell’Orto ove Fabrizio trascorre parte della propria infanzia con la madre e il fratello Mauro, maggiore di quattro anni.
Qui il piccolo “Bicio” – come viene soprannominato – impara a conoscere tutti gli aspetti della vita contadina, integrandosi con le persone del luogo e facendosi benvolere dalle stesse. E’ proprio in tale contesto che cominciano a manifestare i primi segni di interesse per la musica: un giorno la madre lo trova in piedi su una sedia, con la radio accesa, intento a dirigere un brano sinfonico a mo’ di direttore d’orchestra.
Nel 1945 la famiglia De André torna a Genova. Nell’ottobre del 1946 il piccolo Fabrizio viene iscritto alla scuola elementare presso l’Istituto delle suore Marcelline (da lui ribattezzate “porcelline”) dove inizia a manifestare il suo temperamento ribelle e anticonformista. Nel 1948, constatata la particolare predisposizione del figlio, i genitori di Fabrizio, estimatori di musica classica, decidono di fargli studiare il violino.
Nel ’51 De André inizia la frequentazione della scuola media Giovanni Pascoli ma una sua bocciatura, in seconda, fa infuriare il padre in maniera tale che lo demanda, per l’educazione, ai severissimi gesuiti dell’Arecco.
Nel 1955 la prima esibizione in pubblico. Il suo primo gruppo suona genere country e western, girando per club privati e feste ma Fabrizio si avvicina poco dopo alla musica jazz e, nel ’56, scopre la canzone francese nonché quella trobadorica medievale. Seguono gli studi ginnasiali, liceali ed infine universitari (facoltà di giurisprudenza), interrotti a sei esami dalla fine. Il suo primo disco esce nel ’58 (l’ormai dimenticato singolo “Nuvole barocche”), seguito da altri episodi a 45 giri, ma la svolta artistica matura diversi anni dopo, quando Mina gli incide “La Canzone di Marinella”, che si trasforma in un grande successo.
Il giovane cantautore s’accompagna con la chitarra acustica, si batte contro l’ipocrisia bigotta e le convenzioni borghesi imperanti, in brani diventati poi storici come “La Guerra di Piero”, “Bocca di Rosa”, “Via del Campo”. Seguirono altri album.
Solo dal 1975 De André, schivo e taciturno, accetta di esibirsi in tour. Nel 1977 nasce Luvi, la seconda figlia dalla compagna Dori Ghezzi. Proprio la bionda cantante e De André vengono rapiti dall’anonima sarda, nella loro villa di Tempio Pausania nel 1979. Il sequestro dura quattro mesi e porta alla realizzazione dell’”Indiano” nel 1981 dove la cultura sarda dei pastori viene accostata a quella dei nativi d’America. La consacrazione internazionale arriva con “Creuza de ma”, nel 1984 dove il dialetto ligure e l’atmosfera sonora mediterranea raccontano odori, personaggi e storie di porto. Il disco segna una pietra miliare per l’allora nascente world music italiana ed e’ premiato dalla critica come miglior album dell’anno e del decennio.
Il 27 agosto del 1979 Fabrizio De André e la cantante Dori Ghezzi, sua compagna, furono rapiti in Sardegna. Vissero per 117 giorni all’aperto, in una tenda tra le montagne di Pattada, nella provincia di Sassari, e vennero liberati separatamente, il 20 e il 21 dicembre, a seguito del pagamento di un riscatto.
Negli anni Settanta Fabrizio De André e Dori Ghezzi avevano comprato alcuni terreni in Sardegna e ristrutturato una tenuta agricola, l’Agnata, a una quindicina di chilometri da Tempio Pausania. Il 27 agosto del 1979, dopo cena, erano circa le 23, mentre si preparavano per andare a dormire, lei sentì qualcuno salire le scale del piano superiore.
A quel punto venne aggredita da due uomini armati e col volto coperto da un cappuccio con due fori all’altezza degli occhi, mentre un terzo malvivente puntava un fucile contro Fabrizio. “Fummo presi e fatti scendere al piano terra – raccontarono i due in seguito -, dopo averci fatto calzare scarpe chiuse e portato con noi alcune paia di calze. Ci fecero uscire dal retro della casa e fatti sedere sulla nostra macchina, una Citroen Diane 6, targata MI. Prima di chiudere la porta chiesero a Fabrizio dove fosse l’interruttore per spegnere le luci del giardino”. Dalla casa venne portato via anche il fucile Winchester che Fabrizio teneva nella sua camera da letto e una confezione di munizioni.
Dori e Fabrizio vennero fatti salire sui sedili posteriori della Citroen con due banditi a fianco, l’altro guidò la vettura viaggiando verso la statale Tempio-Oschiri. Tra Monti e Alà dei Sardi vennero fatti scendere dall’auto e consegnati ad un quarto “malvivente” che, nonostante gli accordi prevedessero un trasferimento ad Orune, li condusse a Sa Linna Sicca, nelle montagne di Pattada, dopo ore di marcia forzata. Dori ricorderà: “Scendemmo definitivamente dalla macchina e iniziammo il tragitto a piedi per la campagna che alternava tratti scoscesi a tratti pianeggianti e poi ripidi, tra cespugli e rovi, con la testa incappucciata. Camminammo per circa due ore. Dopo una sosta di riposo, riprendemmo il trasferimento in percorsi ancora più accidentati, camminando per qualche ora ancora. Dopo di che, sfiniti, ci fermammo, trascorrendo la notte all’addiaccio. Il cammino riprese il giorno successivo, percorrendo un tragitto interamente in salita, fino all’imbrunire. Raggiunta la destinazione, per la prima volta ci tolsero le maschere e alla nostra vista si presenta la sagoma di un bandito incappucciato. Apprendemmo che si trattava di uno dei nostri custodi, che ci accompagnerà per tutta la prigionia e che Fabrizio battezzerà col nome “il rospo” per via della sua voce gracchiante”.
I prigionieri rimasero nel primo nascondiglio per circa una settimana dormendo all’aperto, i due custodi rimasero sempre incappucciati. Ogni sera arrivava un terzo componente della banda che portava viveri e indumenti. Le parole d’ordine erano “San Pietro” per il vivandiere e “San Giovanni” per i custodi. Poi la coppia viene spostata in un nuovo rifugio, dove rimarrà per qualche mese. Racconterà Dori: “Quando è iniziata la stagione fredda ci hanno dotato di una piccola tenda per ripararci dalle intemperie. Abbiamo sostato in quel luogo fino alla interruzione delle trattative condotte dai secondi emissari. Le informazioni che ci davano erano che il padre di Fabrizio non volesse pagare il riscatto. Ci proponevano di liberare Fabrizio per pagare il mio riscatto o, viceversa, di liberare me affinché Fabrizio convincesse il padre a pagare la mia liberazione. Alla supplica di Fabrizio di alleviarci dalla torture delle bende i banditi acconsentirono, legandoci però con delle catene perché non scappassimo. Uno dei banditi, che di tanto in tanto veniva per accertarsi delle nostre condizioni, raccomandando ai custodi di trattarci bene, comunicava in italiano corretto e forbito, si esprimeva in modo calmo e gentile, che Fabrizio chiamava “l’avvocato”. Dopo il 5 novembre siamo stati nuovamente spostati su un altro versante della montagna. In quel rifugio le tende erano due, una per noi e una per i custodi; ci dotarono anche di un fornello da campo e di una bombola di gas per preparare cibi caldi. Fino ad allora ci nutrivano con pane e formaggio, salsiccia e scatolame”. Nei mesi autunnali ed invernali, nei monti di Pattada, vi è un freddo pungente.
Fin dalla prime fasi delle indagini del Comando dei Carabinieri di Tempio, gli inquirenti ritennero che il sequestro fosse maturato in ambiente orunese. Una volta individuate quelle che potevano essere persone chiave nella vicenda, gli investigatori fecero mettere sotto controllo gli apparati telefonici dei sospettati. Il nucleo originario della banda risultò essere composto proprio da due orunesi e da un veterinario di Radicofani (Siena), vicino all’ambiente pastorale sardo in Toscana. I tre, nei mesi precedenti il rapimento, si erano recati spesso a Tempio per cercare i contatti che consentissero di avere informazioni per portare a compimento il progetto criminale. Vennero contattate diverse persone residenti in Gallura di origine barbaricina e, una volta individuato il basista, era necessario completare la banda con quegli elementi che avrebbero dovuto prelevare le vittime, trattare con la famiglia e portare a termine altri compiti minori. Vennero così coinvolti alcuni componenti di Pattada e alcuni latitanti che avrebbero potuto sorvegliare la coppia durante la prigionia. Gli inquirenti capiscono anche che, all’interno della banda, stanno maturando due diverse correnti che vedono l’anima orunese a tratti contrapposta a quella pattadese, contrasti che causeranno ritardi nelle trattative e nella liberazione degli ostaggi. Persino il Generale Carlo Alberto dalla Chiesa, amico del padre di Fabrizio, si recò in Sardegna per favorire un buon avvio delle indagini.
Dalle indagini emerse come le vittime avessero indirizzato una lettera al padre di Fabrizio, nella quale gli riferivano che i rapitori avevano richiesto, per rilasciarli, un riscatto di 2 miliardi di lire. La famiglia De André incaricò l’avvocato Pinna di Sassari di seguire la vicenda e prese contatti col parroco del Sacro Cuore di Tempio, don Salvatore Vico, al quale fu chiesto di fungere da emissario. Così don Vico, assieme ad una Guardia forestale di Tempio, prese contatto con i rapitori e li incontrò nelle campagne di Orune, ricevendo un ritaglio di giornale con le firme dei prigionieri che dimostrava la loro buona salute. Il sacerdote tentò di convincere i banditi a ridimensionare le pretese, poiché la famiglia De André non era in grado di recuperare una simile somma di denaro, ma il tentativo di mediazione fallì. A inizio novembre, dopo un lungo e preoccupante silenzio, vi fu un nuovo contatto fra sequestratori e famiglia. Emissari della famiglia, in quel caso, furono Gesuino Dessì e Francesco Giuseppe Pala, che risultò poi essere il basista del sequestro. Gli emissari incontrarono per due volte i rapitori nella valle di Marreri, a Orune, e i banditi minacciarono di uccidere gli ostaggi se la famiglia non avesse pagato al più presto 300 milioni di lire come anticipo del riscatto. Seguirono altri incontri, ma le linee divergenti all’interno della banda stessa resero infruttuosi tutti i contatti. Una terza fase vide nuovamente don Salvatore Vico e Giulio Carta, facoltoso commerciante di Orune, impegnati nel ruolo di emissari. Fu la volta buona: il parroco del Sacro Cuore di Tempio riuscì a portare a compimento le trattative, con il riscatto che venne fissato a 550 milioni di lire e pagato, portando alla liberazione degli ostaggi. Altri 50 milioni sarebbero dovuti essere consegnati dopo la liberazione, impegno che venne onorato da De André. Si scoprì poi che Giulio Carta, che doveva consegnare i soldi ai banditi, tenne per sé 50 milioni di lire.
Alle 23 del 20 dicembre, a pochi chilometri da Alà dei Sardi, venne rilasciata Dori Ghezzi, che fu soccorsa da don Vico. Alle 21 del 21 dicembre, invece, venne liberato Fabrizio, nei pressi di Buddusò. Erano passati 117 giorni dal sequestro. Raccontò Dori: “Il 20 dicembre il mio guardiano mi disse che avevano deciso di liberarci. Verso le 15, dopo aver mangiato pane e formaggio, ci incamminammo a piedi percorrendo un tratto di terreno molto scosceso, col viso incappucciato. Mi accompagnano due banditi, di cui il mio guardiano e un altro che non avevamo mai sentito, né visto. Camminammo per almeno 3 ore. Passammo vicino ad una cascata d’acqua, poi attraversammo un fiume. Sentivo l’abbaiare di cani, presumo vicino ad un casolare o forse un ovile; lo intuisco da alcuni rumori. Aspettammo tante, tantissime ore vicino ad una strada nascosti tra i cespugli fino a notte inoltrata. Sono circa le 23 quando finalmente arriva una macchina, una Citroen, che ci carica a bordo. Io ero sempre con le mani legate e mascherata, sorvegliata dai due banditi. Dopo un po’ di strada, forse mezz’ora, mi fecero scendere lasciandomi sul ciglio della strada in attesa che gli emissari mi venissero a prendere.” Fabrizio, nel frattempo, era rimasto nella tenda col suo carceriere. L’indomani, dopo aver ripulito il nascondiglio, si allontanarono anche loro. “Dopo alcune ore di marcia in compagnia del mio guardiano raggiungemmo una strada asfaltata. Mi disse di aspettare che sarebbero venuti a prendermi per accompagnarmi a casa.”
La banda risultò essere composta da sei orunesi, un toscano e tre pattadesi. Le condanne in tribunale andarono dai 9 ai 25anni.
L’11 gennaio 1999 Fabrizio De André muore a Milano, stroncato da un male incurabile.
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da InfoAut