Nelle isole-prigioni che piacciono tanto a Trump e a Salvini aumentano i gesti di protesta estremi, ma Canberra non cede. Critica la situazione nel campo di Nauru: ragazza somala in fin di vita dopo essersi data fuoco. Neanche il verdetto con cui i papuani dichiarano illegale il centro di Manus ferma il governo
In Europa è sostenuto dai movimenti populisti e xenofobi, Matteo Salvini e Marine Le Pen vi fanno spesso riferimento, mentre non dispiace al candidato in pectore della destra statunitense, Donald Trump. Eppure, proprio in patria, il «modello australiano» in materia di immigrazione conta ogni giorno nuovi oppositori e vede crescere anche nei paesi circostanti un progressivo rifiuto.
Inaugurata nel 2013 dall’allora governo conservatore, con la scusa che altrimenti i “boat people” avrebbero continuato ad annegare cercando di raggiungere le coste del paese, ma annunciata già nel 2000 come «la soluzione del Pacifico», la politica di Canberra nei confronti di rifugiati e migranti è sintetizzata nello slogan «No Way», vale a dire nessuna possibilità che qualcuno sbarchi sul territorio nazionale grazie a un capillare controllo da parte della marina e a una serie di accordi stipulati con gli altri paesi dell’area per la costruzione di centri di identificazione su alcune isole distanti dalle coste australiane.
È qui, nell’isola Christmas, in mezzo all’Oceano Pacifico, piuttosto che sull’isolotto di Nauru o a Manus Island, “affittate” agli australiani dalle autorità della Papua-Nuova Guinea che sono sorte delle vere e proprie prigioni dove sono costretti migliaia di richiedenti asilo e di migranti: donne, uomini e anche molti bambini. Luoghi sinistri e pericolosi, il cui uso è stato più volte condannato da Amnesty International dove regna la violenza e dove, dopo mesi di detenzione provvisoria, la disperazione è spesso l’unica forma di protesta possibile.
Dopo la rivolta che alla fine dello scorso anno aveva scosso l’isola Christmas in seguito alla morte di un giovane kurdo, l’epicentro della tensione si è spostato in questi giorni a Nauru dove i richiedenti asilo imprigionati hanno lanciato una forma estrema di protesta: prima un giovane iraniano di 23 anni e quindi una donna somala di 21 anni hanno deciso di immolarsi con il fuoco per denunciare la situazione. L’uomo è morto nei giorni scorsi mentre la donna è stata trasportata mercoledi in un ospedale australiano dove lotta tra la vita e la morte. Tutt’altro che dei casi isolati.
Secondo un’inchiesta del Fairfax Media, uno dei principali network locali della comunicazione, nelle «isole prigioni» ogni due giorni si registrerebbe un nuovo caso del genere: tentativi di suicidio e di mutilazioni per disperazione o per far conoscere all’esterno le condizioni di detenzione.
Una protesta estrema, cui fanno eco la mobilitazione delle associazioni antirazziste e le denunce da parte di ong e organizzazioni per i diritti dell’uomo, che non sembra però scalfire la determinazione delle autorità australiane che, anzi, considerano chi sostiene migranti e richiedenti asilo come responsabili di quanto sta accadendo. Peter Dutton, responsabile del dicastero dell’immigrazione, ha spiegato che «nessuna azione condurrà il governo a deviare dai suoi propositi». Non solo, ha aggiunto il ministro, «sbaglia chi incita i migranti a compiere azioni estreme, credendo che questo convincerà le autorità a trasferirli sul suolo australiano».
Insensibile a quella parte della propria opinione pubblica che chiede un cambio nelle politiche migratorie del paese, come alla sorte degli internati sulle isole-prigioni, il governo di Canberra deve però vedersela anche con un problema giuridico di difficile soluzione. È la recente decisione della Corte suprema della Papua-Nuova Guinea che ha giudicato illegale la detenzione dei richiedenti asilo sull’isola di Manus – affittata a Canberra per scopi difensivi – e stabilito che il campo gestito dagli australiani, che ospita oggi 850 persone, sia chiuso. Canberra ha già fatto sapere che cercherà di spostare i migranti nelle altre isole, forse a Nauru, ma che non intende rinunciare alla sua linea intransigente.
Da una settimana il premier conservatore, il liberale Malcolm Turnbull ha annunciato che il prossimo luglio si svolgeranno nel paese le elezioni politiche anticipate. Secondo la stampa australiana, Turnbull intende indirizzare verso posizioni più centriste la politica dell’esecutivo. Peccato che quella che annuncia come una «svolta moderata» non riguardi la sorte di quanti vivono sulle isole-prigioni.
da il manifesto