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Permessi di soggiorno, dopo la beffa il danno

Il Governo aumenta i costi che gli stranieri devono sostenere per rinnovare i permessi di soggiorno. E per chi sbaglia a riempire il bollettino sarà difficile ottenere i rimborsi…

Una «operazione senza pudore». Così la CGIL nazionale e l’INCA hanno definito l’aumento dei costi dei permessi di soggiorno, disposto da un decreto interministeriale varato il dieci Marzo scorso, ma entrato in vigore alla fine di Aprile.

Già, senza pudore. Perché nel frattempo la Corte di Giustizia della UE aveva imposto all’Italia di ridurre il “prezzo” dei documenti, in particolare del permesso per lungosoggiornanti. Ma il Governo, come spesso accade, ha ignorato del tutto la sentenza: e adesso, con il nuovo decreto, quel “prezzo” aumenta invece di diminuire…

La beffa

Sia chiaro: si tratta di una beffa, più che di un vero e proprio danno: l’aumento è di poco meno di tre euro, una cifra tutto sommato irrisoria. Il problema è che già oggi la somma richiesta per ottenere un documento di soggiorno è del tutto spropositata: quando presenta la sua domanda di rinnovo, lo straniero è costretto, letteralmente, a svuotarsi le tasche, e a elargire un obolo consistente a svariati enti pubblici e privati.

In primo luogo, c’è da “risarcire” l’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, incaricato di stampare il permesso di soggiorno. Quest’ultimo ha la forma di un tesserino di plastica – simile a un bancomat, forse non a caso… – e la sua produzione ha un costo considerevole: 27 euro e cinquanta centesimi IVA inclusa, stando a quanto dice un decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze del 4 Aprile 2006.

La “tassa” sui permessi del 2009

Nuovo permesso elettronico

Poi c’è la “tassa” sui permessi di soggiorno, voluta dalla Lega Nord e imposta dal “pacchetto sicurezza” del 2009: un salasso variabile da 80 a 200 euro, a seconda della durata del documento richiesto.

Di fronte alla Corte di Giustizia, per giustificare l’enormità di queste cifre, il Governo italiano aveva spiegato che la “tassa” servirebbe a finanziare «l’attività istruttoria necessaria alla verifica dei requisiti per l’acquisizione del titolo di soggiorno» [vedi il testo della sentenza, punti 29 e 20]: in pratica, lo straniero pagherebbe il lavoro del funzionario che, in Questura, valuta la sua pratica.

Peccato che le cose non stiano così: la legge stabilisce infatti (decreto legislativo 296/98, art. 14 bis) che metà della “tassa” serve a finanziare il fondo rimpatri, cioè le espulsioni dei migranti irregolari. La tesi per cui lo straniero “rimborserebbe” l’attività istruttoria è dunque una bufala, e l’Avvocatura dello Stato non ha fatto una gran figura a sostenerla di fronte ai magistrati europei…

Gli altri oboli

Proseguendo nell’infelice elenco degli oboli richiesti allo straniero, bisogna menzionare la marca da bollo (16 euro), naturale complemento di molte “istanze” inoltrate alla Pubblica Amministrazione, e il “rimborso” a Poste Italiane. Già, perché dal 2006 la domanda di permesso di soggiorno si presenta agli uffici postali, che a loro volta la inviano alle Questure competenti.

Per questo banalissimo compito – non troppo dissimile dall’invio di una raccomandata, che costa all’utente circa 4 euro – le Poste prendono agli stranieri la bellezza di trenta euro (così disposto dall’art. 9 della Convenzione col Viminale del 2006 e dall’art. 1 del Decreto Ministeriale del 12 Ottobre 2005).

Cosa cambia con le nuove regole

Riassumendo, dunque, lo straniero pagava fino ad oggi 27,50 euro per il Poligrafico, 16 euro di marca da bollo, 30 euro a Poste Italiane, più la tassa sui permessi variabile da 80 a 200 euro: l’esborso poteva variare dunque da un minimo di 73,50 euro (per i fortunati “esenti” dalla tassa) a un massimo di 273,50 euro.

Con l’introduzione del nuovo permesso di soggiorno elettronico (il cosiddetto “PSE 380”), e con il decreto del 10 Marzo 2016, cambia anzitutto la voce relativa al rimborso del Poligrafico, che passa da 27,50 a 29,96 euro. Lo straniero dovrà inoltre pagare a Poste Italiane un corrispettivo di 50 centesimi «per la prestazione del servizio»: così recita il decreto, dimenticando – o fingendo di dimenticare – che per quella prestazione le Poste prendono già oggi trenta euro.

E dopo la beffa, il danno: i bollettini per chi sbaglia

Si diceva poco sopra che si tratta di una beffa, più che di un danno: pochi euro in più, che certo non cambieranno la vita a nessuno. Ma che succede se uno straniero, abituato alle vecchie cifre, inserisce nel bollettino la somma di 27,50 euro per il Poligrafico, anziché il valore aggiornato di 29,96 euro più 50 centesimi per Poste Italiane?

Poco male, si dirà: basta pagare un bollettino aggiuntivo, con i tre euro di differenza, e tutto si risolve. È quel che hanno cercato di fare alcuni cittadini stranieri residenti a Pisa. La Questura, però, ha imposto di pagare interamente un nuovo bollettino con la cifra aggiornata.

«Per il vecchio bollettino già pagato potete fare domanda di rimborso», hanno spiegato i poliziotti allo Sportello. Già. Solo che la “domanda di rimborso” si fa con una marca da bollo da 16 euro: quindi, di fatto, si perdono più della metà dei fatidici 27,50 euro. Alle proteste dei migranti, i funzionari della Questura hanno spiegato che si tratta «di ordini superiori provenienti dal Ministero dell’Interno».

Di questi «ordini superiori», però, non c’è traccia. Giriamo quindi la domanda al Viminale: perché non è possibile far valere un bollettino integrativo con la cifra mancante? Attendiamo risposta, fiduciosi.

Sergio Bontempelli da a-dif.org