La sentenza per il processo riguardo ai fatti del 14 dicembre, che si sarebbe dovuta tenere ieri, slitterà al 23 giugno. La convulsa giornata in cui si decidevano le sorti dei 26 compagni ancora imputati per i fatti del 2010 ha visto la presa di parola di una parte degli avvocati, capaci di disarticolare punto per punto la requisitoria ridicola di Tescaroli. Un Pubblico Ministero completamente in preda ad un raptus vendicativo apparentemente fuori da ogni logica. In realtà, dietro ai moventi di Tescaroli agisce una pressione politica, come ormai evidente, volta a perseguire qualsiasi forma di opposizione effettiva al neoliberismo, qualsiasi ipotesi conflittuale capace di organizzare i frutti della crisi economica. Fino a qualche anno fa un processo del genere non sarebbe mai andato a dibattimento. Anche i nostri compagni imputati hanno sul groppone denunce e processi estremamente più gravi, nessuno di questi però vede la stessa volontà persecutoria, una volontà peraltro basata su fatti non avvenuti, su ipotesi inconsistenti. Se la giustizia in Italia fosse davvero imparziale, il giudice non avrebbe avuto alcun impedimento oggettivo al pronunciamento immediato di assoluzione. Siccome l’amministrazione della giustizia non è quell’affare neutrale e oggettivo che vorrebbero farci credere, ancora è in forse l’esito della sentenza. Un esito che dipende dai rapporti di forza politici, non dai fatti provati nelle aule. Purtroppo per vent’anni dei rapporti perversi tra Magistratura e giudici, della direzione giustizialista e vendicativa, se ne è occupata solo la destra berlusconiana, motivo per cui è risultato impossibile articolare un discorso serio e progressista sul ruolo di un organo costituzionale, vero e proprio potere incontrollato e incontrollabile, piegato a determinate ragioni politiche.
Attenderemo allora anche questo 23 giugno. Nel frattempo, sarà opportuno comprendere che la direzione repressiva della Magistratura non è un fatto tecnico ma politico. E’ nei rapporti politici che si situa una volontà più o meno persecutoria, non nella cattiveria di questo o quel giudice o magistrato. E questi rapporti riguardano sia la politica in senso generale che i nostri atteggiamenti nei confronti della repressione. La presa di coscienza che sia terminata forse definitivamente una fase storica, quella della mediazione politica capace di spostare in avanti o indietro i rapporti di forza tra classi, non può poi non riversarsi sul rapporto tra politica e giustizia. Finita la mediazione politica, anche ogni forma di “mediazione repressiva” viene meno. Una certa legittimità politica, per anni tenuta in conto rispetto agli enormi problemi sociali della città, viene oggi completamente ignorata. Scomparso ogni orizzonte di legittimità, la legalità pervade tutti l’insieme dei rapporti politici, determinando anche l’azione inquirente. Questa mediazione saltata trasforma ogni atto politico in questione legale, elevando il grado di repressione. Tanto per dire, un compagno imputato con noi ieri, per due processi simili e in cui il reato contestato più grave è il lancio di oggetti, rischia una pena complessiva di più di sette anni, una pena che neanche un omicida prenderebbe in un normale processo.
Ma se è tutto l’ambito della mediazione politica ad essere venuto meno con la messa in mora del Novecento, anche le politiche di movimento dovrebbero iniziare a domandarsi come uscire da un cul de sac che rischia di essere mortale per l’agibilità stessa della protesta. Muoversi allo scontro frontale in una fase di generale ripiegamento non potrebbe che provocare una recrudescenza allo stato attuale difficile da gestire, ci sembra. Un ragionamento tutto aperto ma, allo stesso tempo, da prodursi necessariamente, evitando dinamiche nichiliste volte ad esaltarsi per una giustizia ancor più repressiva, quasi fosse un certificato di idoneità alla lotta politica. Non è la repressione che va ricercata, ma il modo di smontarla, e questo si trova nei rapporti politici, non nello studio delle tattiche punitive.
Militant da Militan-blog