Intervista all’avvocato aquilano Barbara Amicarella, che lavora da oltre 10 anni con detenuti sottoposti al 41-bis.
Nella gionata di venerdi 4 maggio, si è tenuta la quarta udienza al tribunale di L’Aquila, che vede alla sbarra Nadia Lioce, brigatista rossa condannata per gli omicidi dei giuslavoristi Massimo D’Antona e Marco Biagi e del sovrintendente di Polizia Emanuele Petri, ha fatto discutere molto in città. “41-bis, strumento o tortura?” Il Capoluogo intervista l’avvocato aquilano Barbara Amicarella, che lavora da oltre 10 anni con detenuti sottoposti al 41-bis.
Un regime che ha lo scopo di recidere ogni legame con le organizzazioni dalle quali i detenuti provengono, obiettivo che nessuno mette in discussione, ma sul quale vorremmo aprire una riflessione dopo la protesta interna attuata dalla Lioce.
Nadia Desdemona Lioce vive in regime di 41-bis alle Costarelle dal 2004 ed è la leader delle Brigate Rosse – Partito Comunista Combattente, condannata a tre ergastoli per gli omicidi, commessi con finalità di terrorismo, dei giuslavoristi Massimo D’Antona e Marco Biagi e del sovrintendente di Polizia Emanuele Petri.
Il regolamento prevede che possa dialogare con una sola compagna di detenzione durante l’unica ora d’aria della giornata, cui si somma una visita al mese da parte dei familiari, senza contatto fisico e attraverso un vetro.
La brigatista lamenta di poter tenere soltanto due libri e tre quaderni.
Vietati il merluzzo servito crudo, i canali della televisione, i contenitori di plastica e le razioni di detersivo, che si possono tenere in cella e che le vengono tolti durante la notte.
L’irriducibile Lioce non è piegata da 13 anni di carcere duro ma, pur definendosi ancora una “militante”, ha decisamente cambiato fronte di lotta. Come si legge nei ricorsi, nelle istanze e nelle richieste che incessantemente scrive nella sua cella di isolamento con finestrella sul nulla, a cui si accede dopo un lungo corridoio sotterraneo, nel carcere dell’Aquila. Su ogni argomento la Lioce tira in ballo i diritti umani e quando le sue richieste non vengono accolte ed esaudite, ecco che Nadia Lioce batte la scodella di metallo contro le sbarre della cella: “una battitura sonora ed ossessiva”, per cui è stata portata a processo.
41-bis l’intervista
«Il 41-bis è un regime che vuole minare la stabilità mentale dei carcerati, al fine di riuscire a farli crollare e raccontare i dettagli delle cosche da cui provengono – racconta l’avvocato aquilano Barbara Amicarella, che lavora da oltre 10 anni con detenuti sottoposti al 41-bis -. Il regime di carcere duro, però, nel protrarsi degli anni non viene quasi mai revocato ed è continuamente confermato anche ai detenuti che, chiaramente, non hanno più ruoli significativi nelle organizzazioni malavitose.
41-bis solo un numero minimo di foto appese in cella
«I detenuti in 41-bis hanno l’obbligo di tenere un certo numero ben preciso di fotografie dei familiari appesi in cella e non una di più – ci spiega l’avvocato Amicarella -. Questa limitazione, come molte altre che nulla hanno a che fare con i collegamenti esterni, è sicuramente dettata dal voler imporre una costrizione psicologica che, in determinati casi, diventa una violenza gratuita ed inutile. Mi riferisco a chi è in questo regime da oltre 25 anni; a chi non ha effettivamente più nessun controllo sul potere esterno; a chi resterà in carcere per tutta la vita per scontare il malfatto e nulla più conosce delle organizzazioni esterne» conclude l’avvocato Barbara Amicarella.
Le limitazioni del 41-bis
Isolamento nei confronti degli altri detenuti. Il detenuto è situato in una cella singola e non ha accesso a spazi comuni del carcere.
L’ora d’aria è limitata rispetto ai detenuti comuni e avviene anch’essa in isolamento.
Il detenuto è costantemente sorvegliato da uno speciale corpo di polizia penitenziaria il quale, a sua volta, non entra in contatto con le altre guardie carcerarie.
Limitazione dei colloqui con i familiari e gli avvocati per quantità (massimo due al mese; nel caso degli avvocati questa norma è stata abolita dalla Corte costituzionale nel 2013), per qualità (il contatto fisico è impedito da un vetro divisorio) e per durata.
Contatti con l’esterno limitati ad una telefonata al mese.
Censura della posta in uscita e in entrata.
Proibizione di tenere molti oggetti personali in cella (penne, quaderni, denaro, macchine fotografiche, bottiglie, ecc).
«La struttura è stata ultimata nel 1986, – come si legge sul sito del Ministero della Giustizia che descrive la casa Circondariale aquilana – ma l’istituto è entrato in funzione nel 1993. L’istituto è nato originariamente con una capienza regolamentare di 150 detenuti comuni. La capienza tollerabile è stata fissata a 300 detenuti comuni. Intorno al 1996, la struttura è adibita quasi interamente alla custodia di detenuti sottoposti a paticolari regimi di sicurezza che alloggiano in celle singole».
Su 173 detenuti che si trovano nella struttura, ben 147, tra cui 7 donne, sono sottoposti al regime del 41 bis. E se lo chiamano carcere duro, un motivo ci dovrà pur essere. Una visita durata un paio di ore, al termine della quale Federica Chiavaroli si è detta “molto provata. Si avverte proprio questo clima da carcere duro. È una struttura assolutamente ordinata”, ha detto all’uscita, “anche se qualche problema ce l’ha per quanto riguarda la carenza di personale, sul quale concentreremo la massima attenzione. È chiaro che poi la riflessione più profonda riguarda il 41 bis, Stiamo riflettendo su come assicurare condizioni di vita dignitose anche a chi si trova in 41 bis. Anche il presidente della commissione diritti umani, Luigi Manconi, ha parlato dell’umanizzazione del 41 bis”.
intervista a cura di Roberta Galeotti per il Capoluogo