Bossi Fini e Jobs Act sono i cardini centrali su cui si organizza lo sfruttamento nel nostro paese. Nessuna integrazione è possibile senza il loro superamento e la garznzia per tutti di lavoro e diritti
Torniamo a scrivere sul tema dell’accoglienza in Italia, lo facciamo perché nonostante abbiamo più volte avuto molti consensi parlando con le persone che vivono e lavorano su questo spazio non si è andati oltre le semplici spallucce di circostanza, eppure la necessità di aprire una discussione politica sul tema c’è tutta. Ed è tutta davanti a noi. Un articolo de “La Repubblica” di alcuni giorni fa mostra, dati alla mano, che sì, gli immigrati ci servono, pagano l’Irpef e le pensioni (quelli regolari), mentre gli altri, i clandestini prodotti dal sistema hotspot e grandi centri sono fondamentali per mantenerci in competizione su settori come quello dell’agricoltura. Ovviamente senza parlare del lavoro di cura che decine di migliaia di donne stanno facendo mantenendo di fatto in piedi il “welfare familiare” nel nostro paese.
Nel migliore dei casi, quindi, l’approccio che i liberali progressisti usano per affrontare la questione dell’immigrazione è quello dell’utilità strumentale: qualcuno, dicono, dovrà compensare il calo demografico. Poco conta che le attuali normative producano clandestinità, anzi, il bacino di forza lavoro ipersfruttato che viene prodotto è senza dubbio utile in tempi di crisi, prova ne è che nonostante il flusso di migranti sia aumentato negli ultimi anni l’ultimo decreto flussi è lontano nel tempo. L’approccio utilitaristico che si è costituito sul tema dei migranti porta però con sé altri elementi nel dibattito pubblico. In prima battuta, infatti, un tale approccio oscura il terreno dei diritti, il terreno principale di questa tendenza politica è quello di considerare le migrazioni solo all’interno della compatibilità del mercato del lavoro. Un mercato in cui la distinzione tra categorie di persone che si opera alla frontiera altro non è che meccanismo di categorizzazione e separazione nel mondo del lavoro e nell’accesso al welfare.
Noi e loro, migranti economici e rifugiati, e via di questo passo. La categorizzazione degli interventi ci porta in una strada in cui i diritti sociali sono sempre messi in secondo piano, dove le risposte sono settoriali e di facile collocamento nell’industria dell’emergenza immigrazione. Il nodo vero è che il blocco dei canali di ingresso legali per motivi economici è volutamente fermo da anni. La ratio di questa scelta sta nel fatto che gli arrivi vi sono ugualmente e l’ingresso nel mercato del lavoro povero avviene con minore impatto burocratico e minori rischi penali. È emblematico quanto emerge da un articolo de “La Stampa” di qualche giorno fa sull’accoglienza in Basilicata, dove si illustra la scelta della Regione di prendere in accoglienza un numero maggiore, rispetto alla ripartizione prevista in sede ministeriale, di richiedenti asilo. Il dato macroscopico che emerge è l’occupabilità dei richiedenti nel comparto agricolo. Conosciamo bene i meccanismi di questi processi. Si potrebbe tradurre facilmente questa richiesta in: ci serve manodopera a basso costo e visto che ci date i soldi per l’accoglienza le aziende saranno felici di sottopagare i lavoratori. Quindi si utilizza l’accoglienza farlocca per avviare un modello di sottosviluppo finalizzato solo a un sistema di impresa che abbiamo conosciuto bene e denunciato in questi anni. Abbiamo contezza di esperienze che seguono la stessa logica. Sappiamo che in alcuni Sprar e Cas pugliesi sono i caporali o i padroni stessi che vanno a chiedere agli operatori la lista dei presenti, per portarli a lavorare nelle campagne per pochi euro e addirittura stilano una graduatoria per la richiesta del salario, rigorosamente a nero, fra i centri di paesi vicini .
Il corto circuito di questo meccanismo non è imputabile all’accoglienza ma al sistema giuridico che le fa da fondamenta. In assenza di una reale politica degli ingressi il canale emergenziale è l’unico attivo. Chi pensa che basterebbe chiudere le frontiere non capisce l’impraticabilità di questa ipotesi e di questa retorica. Le frontiere non si possono chiudere, oppure il costo sociale e umano per farlo sarebbe enorme e risultati sarebbero comunque pessimi. Basti guardare all’accordo tra Europa e Turchia e ai suoi effetti in termini di sfruttamento, anche dei minori siriani nelle fabbriche tessili turche. L’esternalizzazione delle frontiere è ciò che l’Europa sta tentando di mettere in campo, ipotizzando di finanziare i peggiori regimi africani, in cambio di ridotte partenze. Questo tentativo, però, è carico di morte e dilaziona gli arrivi ma non li ferma. Lo vediamo ogni giorno.
Ciò che vogliamo proporre qui è l’idea che il sistema di welfare, dentro il quadro della crisi, vada ripensato e sottratto alla categorizzazione prodotta dalla logica dell’emergenza. Conosciamo bene le differenze fra soggetti diversi e con esigenze diverse, ma sappiamo anche dei moltissimi punti di contatto fra chi vive condizioni di disagio analogo. La programmazione degli interventi pubblici dovrebbe accomunare soggetti con esigenze affini. E soprattutto bisogna programmare.
Quando si interviene per categorie in tempi di crisi il meccanismo che si attiva è semplicemente quello di accentuare la guerra tra poveri, quello che non è un diritto per tutti è il privilegio degli altri. Alla base della guerra tra poveri, quindi, non c’è soltanto un elemento strutturale che riguarda il taglio del welfare nella ristrutturazione operata dalla crisi, ma anche l’aver creato una progettazione sociale basata sulle categorie . Questo ovviamente al lordo delle inefficienze, delle clientele, e dei complici silenzi.
Perché un minore straniero non può trovare la stessa risposta di un minore nato e cresciuto nel nostro paese? Non sarebbe più utile da questo punto di vista pensare al tema accoglienza allargandolo a tutte le figure del welfare in uno schema unico di diritti sociali rispetto a casa, lavoro, welfare? Ma davvero possiamo pensare che l’unica risposta per i rifugiati accusati di non far nulla dalla destra xenofoba è quella di farli lavorare da volontari, come si faceva con i tossicodipendenti nei giardini pubblici durante gli anni ’80 e ’90? La cosa che ci colpisce in questa discussione è come il mondo accademico e universitario, che tanto ha studiato sul tema dell’accoglienza, non abbia prodotto nulla di utile per quanto ci riguarda, ed è un dato questo che ci deve far riflettere su come i processi di valorizzazione del sapere e della ricerca si indirizzino solo su alcuni aspetti, tralasciando invece altri elementi che a nostro giudizio sono fondamentali.
In termini generali occorre aprire una discussione che intrecci il tema dell’accoglienza con il tema del diritto al lavoro dignitoso e a diritti per tutti. Il che vuol dire che non possiamo essere silenti con chi, sotto le insegne della solidarietà, utilizza la forza lavoro migrante sfruttandola o proponendo salari differenziati. Siamo rimasti molto colpiti, ad esempio, nel constatare come il mondo della solidarietà verso i migranti sia rimasto in pantofole durante la manifestazione di Piacenza per denunciare l’omicidio di Abdel el Salham, facchino della logistica che lottava per i diritti di tutti. Lottano i facchini immigrati perché sanno che se perdono il lavoro la loro strada è quella che li porta allo sfruttamento nei campi dove lavorano i clandestini. Lottano perché non vogliono finire sfruttati. Denunciamo con forza il fatto che non ci può essere accoglienza degna dentro un quadro normativo come questo, con leggi come la Bossi Fini che altro non sono che leggi contro i disoccupati, legge questa che, insieme alla logica degli hotspot, produce una vasta area di clandestinità e sfruttamento. Questo non significa che l’accoglienza sia inutile o che non ci siano esperienze valide. Anzi.
Occorre secondo noi, cominciare a dire che non ci può essere integrazione fino a quando hotspot, Bossi Fini e Jobs Act sono i cardini centrali su cui si organizza il lavoro nel nostro paese. Il rischio che intravediamo è di uno “sfruttamento etico” colorato di buoni sentimenti. Eppure sarebbe utile invece che prendersela con gli sfruttati iniziare a chiedersi: a chi finisce tutto questo profitto? Chiedere chi è che trae beneficio dal lavoro di decine di migliaia di lavoratori.
In Italia ci troviamo di fronte a un grandissimo problema di occupazione, di sotto occupazione e di occupazione irregolare. Il Governo, ma sarebbe meglio dire i governi, hanno pensato in questi decenni di affrontare tale elemento in vari modi, ma tutti sono stati concordi che la via di uscita sarebbe stata quella di flessibilizzare i diritti dei lavoratori. Il risultato finale di questo processo è la ripresa consistente dell’emigrazione di giovani italiani da un lato, e la creazione di un’industria di sfruttati del XXI secolo arrivati dal Sud del mondo, ai quali vengono dati salari e diritti ai limiti della sopravvivenza. Pensare ancora che questi elementi non riguardino il tema dell’accoglienza, vuol dire semplicemente essere complici di uno dei più grandi processi di sfruttamento verso una fetta di lavoratori che il nostro paese abbia mai conosciuto.
Per quanto ci riguarda pensiamo che il tema della riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario sia un tema fondamentale da articolare con le politiche di accoglienza assieme alla lotta contro il lavoro nero. Primo perché questo ci permetterebbe di uscire dalla crisi facendo pagare ai ricchi il prezzo del disastro che hanno provocato, secondo perché si liberebbero decine di migliaia di posti di lavoro, terzo perché le tasse pagate in busta paga alimenterebbero il welfare e rimetterebbero a posto i conti delle pensioni.
Quello delle migrazioni è un grande tema rimosso, nonostante la quantità di notizie che lo riguardano. Con questa riflessione vogliamo invitare tutti a riaprire il capitolo del lavoro e dello sfruttamento. Vogliamo produrre una campagna per aprire nuovi canali di ingresso legale per motivi di lavoro e uscire così dalla dicotomia tra crisi e abbattimento dei diritti.
Gianluca Nigro, Francesco Piobbichi da DinamoPress