Parlare di confini, barriere e detenzione per migranti significa anche interrogarsi sul modo in cui questi vengono rappresentati e spettacolarizzati
di Carla Panico
Quando si evocano fili spinati, catene, restrizioni della libertà personale di movimento, sbarre e lucchetti, bisogna chiedersi, tirando le somme, fino a che punto si può spingere la metafora. O, meglio, fino a che punto si possa usare la sofferenza e l’oppressione – degli altri – come metafora di una dinamica di potere, poiché per qualcuno quei fili spinati, quelle catene e quelle restrizioni non sono affatto metaforiche, ma materialissime, e vengono esercitate sul proprio corpo e sulla propria pelle.
Quando, ancora nel bel mezzo della pandemia, ci siamo ritrovati a discutere della traduzione – nel suo senso etimologico del condurre attraverso – di quel «I can’t breath» che risuonava nelle piazze d’oltreoceano è riecheggiato, ancora, l’imbarazzo di un paese dalla metafora facile sulla pelle altrui. Mentre ci si accapigliava su come sbiancare meglio il movimento Black Lives Matter, chi con cattiva coscienza – come giornali mainstream e politici pronti a rilanciare a suon di hashtag l’esotismo di un problema tutto americano, lontano dalla nostra esperienza – chi con le migliori intenzioni – i movimenti che ne facevano «solo» una questione universale di abusi di polizia – l’elemento della razza spariva progressivamente dal dibattito, nell’imbarazzo generale di un vuoto lessicale e politico.
Eppure, nel frattempo si soffocava – letteralmente – nelle carceri italiane, sovraffollate, prive di qualsiasi misura minima di sicurezza anti Covid, attraversate da rivolte materiali, chiare, piene di disperazione e dignità e altrettanto materialmente represse, con una ben collaudata liturgia della violenza detentiva che ha lasciato a bocca aperta solo quando occasionalmente ripresa da una telecamera accesa. Un sistema strutturalmente violento ma anche, e questo è troppo spesso eluso, strutturalmente razzista, laddove classe, razza e genere si intrecciano inevitabilmente in una delle maniere più lontane possibile dalle semplici analisi teoriche. Un sistema in cui, in Italia come in tutta Europa, vengono rinchiuse percentuali altissime di persone non bianche, straniere, migranti. Un dato davanti al quale le alternative si riducono all’osso: o si crede alle più basilari teorie frenologiche che fanno del crimine una pulsione innata maggiormente distribuita in alcune razze che in altre, o si ammette, senza troppi indugi, che il complesso del sistema poliziesco, giudiziario e carcerario – e sociale – di per sé produce più facilmente come criminali coloro che non possono essere considerati come interni alla nazione.
Si soffocava, ancora, annegando nel Mar Mediterraneo, ma con la diffusione del virus non faceva più notizia, dopo i primi tentativi di trasformare i migranti nel nuovo spauracchio dell’untore che assedia le frontiere portando nella salutare Europa le malattie del Sud del mondo. Si soffocava, infine, negli infiniti ingranaggi burocratici, gorghi amministrativi e non-luoghi iper- topici del sistema detentivo amministrativo nelle cui macchine finisce chi è sopravvissuto al secondo punto di questo elenco e non è ancora – o non più – nelle mani del primo – per fortuna, casualità, storia di vita o semplice collocazione in differenti «gerarchie della pietà». Quelle gerarchie che si inseriscono tra i parametri del famoso imbuto e producono solo alcuni – donne e bambini, secondo ciò che Barbara Pinelli definisce il paradigma «women and children», o semplicemente coloro che più somigliano a noi per colore della pelle, vicinanza geografica, religione praticata o nemico comune da cui scappano – come rifugiati, profughi o, più in generale, essere umani degni della nostra pietà e della nostra accoglienza; e altri come invasori, criminali, clandestini da detenere e rimpatriare: Corpi reclusi in attesa di espulsione, come titola la raccolta di saggi su «la detenzione amministrativa in Europa al tempo della sindemia» curata da Francesca Esposito, Emilio Caja e Giacomo Mattiello (edizioni Seb27, 2022).
La gerarchia dei Sud
Navi quarantena, centri di identificazione e espulsione, hotspot – luoghi che assumono nomi e acronimi diversi in ogni lingua e per ogni nuova sistematizzazione legale, volutamente in costante mutazione – luoghi a cui, dall’inizio della quarantena in particolar modo, «non guardava più nessuno» sono rimasti attivi, contro ogni logica interna e coerenza amministrativa. Basti pensare che l’esistenza di tali centri è formalmente giustificata come luoghi in cui far sostare migranti in attesa di espulsione e/o a rischio di fuga, posti mantenuti aperti in un contesto globale in cui il rimpatrio forzato, così come la fuga, erano resi materialmente impossibili dal blocco della mobilità globale dovuto al Covid.
Attraverso i diversi capitoli di questa raccolta, infatti, abbiamo la possibilità di compiere un viaggio attraverso le infamie di un sistema detentivo di frontiera sparso in tutta Europa; dagli hotspot in Grecia ai Cate dell’Andalusia, da Lampedusa alla Serbia – le frontiere si moltiplicano all’interno del vecchio continente e inghiottono le vite di migliaia di persone. Frontiere che vengono esternalizzate fuori da oppure ai margini dell’Europa stessa, in quei territori di confine che, nella loro storia, sono sempre stati a loro volta rappresentati come non pienamente o non propriamente appartenenti all’identità europea o alla narrativa degli stati-nazione di cui fanno parte. È così che in Serbia, quelli che un tempo erano considerati «i cattivi ragazzi d’Europa» – all’interno di una precisa costruzione orientalista dei paesi balcanici come luogo di provenienza di cattivi migranti, soprattutto a cavallo degli anni Novanta – si ritrovano, oggi, a essere ri-nazionalizzati nella veste di guardiani delle frontiere dell’Europa, il cui confine – amministrativamente e culturalmente – si è nel frattempo spostato, pur di escludere degli altri più altri. Allo stesso modo, i Sud interni agli stati nazione europei, come l’Andalusia o il Meridione d’Italia, da sempre territori ai margini della nazione, inclusi a singhiozzo nell’identità europea perché non abbastanza bianchi, cristiani o moderni, vengono guadagnati al progetto nazionalista in quanto nuovi guardiani delle frontiere nazionali, luoghi in cui viene esternalizzato e appaltato il confine, territori in cui si decide chi detenere, chi far vivere e chi lasciar morire. Questa nuova funzione dei Sud interni dovrebbe mettere in crisi radicale la narrazione bonaria e autoassolutoria delle periferie interne al Nord globale come luoghi di istintiva accoglienza e apertura, proprio perché questa concessione delle briciole del nazionalismo produce una nuova gerarchia di Sud, che causa, proprio in questi territori, una pressoché inedita euforia nazionale del confine.
La rappresentazione mediatica della frontiera
La frontiera non è solo il confine che va aperto o chiuso, protetto e vigilato, ma anche rappresentato.
La rappresentazione della frontiera a cui siamo abituati è marcata da elementi fisici molto evidenti e visibili, come muri, fili spinati oppure elementi naturali altrettanto non oltrepassabili, come le montagne o grosse masse d’acqua. Nella realtà della fortezza Europa le frontiere sono piuttosto frammentate e ri-articolate attraverso più luoghi possibili, dislocati in più territori. Luoghi che diventano forme estremamente burocratizzate per regolare o impedire gli attraversamenti: il processo di attraversamento di una frontiera si compone anche di stanze di commissariati, uffici pubblici, celle, centri di detenzione che si trovano e vengono spostati qua e là nei territori a seconda di dove si vuole tracciare – o, esternalizzare – il confine.
Queste frontiere detentive non vengono altrettanto rappresentate e quindi inserite nell’immaginario collettivo come luoghi a cui prestare attenzione o in cui esercitare pressione e conflitto. Credo che ciò abbia a che fare con quella che viene definita «la spettacolarizzazione del confine», cioè la possibilità di iper rappresentare alcuni luoghi di frontiera mediante una proliferazione di immagini e narrazioni ad alto impatto emotivo. Questo determina anche una differente risposta emotiva al modo in cui vengono rappresentate le operazioni umanitarie, le campagne di solidarietà, il lavoro militante – che ha come principali protagoniste persone bianche ed europee – in luoghi di confine più o meno spettacolarizzati. In altre parole, se il Mediterraneo diventa il luogo di esercizio delle peggiori rappresentazioni necropolitiche, razziste e cariche di odio, può diventare, al tempo stesso, la frontiera spettacolarizzata in cui esercitare uno sguardo pesantemente influenzato da eredità coloniali, ma bonario, pietistico, che permette, cioè, di creare un protagonismo del salvatore bianco. L’importantissimo lavoro di recupero marittimo esercitato dalle Ong è stato, negli anni immediatamente precedenti alla sindemia, oggetto di rappresentazioni esterne costanti e distorte; da un lato criminalizzanti, dall’altro volte a trasformare volontari e operatori di vario tipo – il più delle volte, loro malgrado – nei protagonisti salvifici della vicenda, a discapito delle vite di chi si trovava ad essere «salvato» e, una volta faticosamente giunto in Europa, scompariva. In alcuni casi, la sparizione è funzionale alla tutela delle stesse persone, che hanno avuto la fortuna di riuscire a eludere il sistema di gestione delle migrazioni europeo o vi hanno trovato una qualche forma di accoglienza. In altri – tanti, troppi – casi, tuttavia, la storia delle persone migranti e la loro relazione con le frontiere europee non si risolve affatto con la traversata marittima, dopo la quale inizia una penosa, straziante e pressoché opaca e silenziosa trafila di detenzione amministrativa su cui i fari dell’attenzione – mediatica, politica, persino, spesso, interna ai movimenti di solidarietà – si spengono.
Occuparsi del regime migratorio europeo dal punto di vista della detenzione corrisponde a un lavoro politico e di ricerca oscuro, il più delle volte triste e magari anche noioso. Significa confrontarsi con una macchina giuridica elefantiaca, strutturalmente ambigua, in costante mutamento di cui è necessario conoscere attentamente il funzionamento, le contraddizioni e i meccanismi, e di cui bisogna poter ricostruire la genealogia politica e legale, diversa da un paese all’altro. Una genealogia spesso di sinistra, come ci ricorda Giulia Fabini nel suo lungo testo di attenta contestualizzazione del sistema detentivo nel quadro del diritto italiano, iniziato proprio con la legge Turco-Napolitano che istituiva, nel 1998, i Centri di permanenza temporanea (Cpt), divenuti poi Centri di identificazione ed espulsione – Cie, da cui prese il nome, nel 2011, la campagna nazionale contro la detenzione amministrativa dei migranti LasciateCIEntrare.
Il valore politico dello studio della detenzione amministrativa
Studiare a fondo e comprendere i meccanismi del sistema detentivo è una operazione politica fondamentale per poter individuare crepe o piccoli spiragli in cui inserirsi, a cavallo tra ciò che è lecito e ciò che non lo è. Crepe il più delle volte aperte – e a questo aspetto è dedicata buona parte dell’attenzione del libro Corpi reclusi in attesa di espulsione – dalle persone detenute che si ribellano, sfuggono ai meccanismi del sistema, resistono, si organizzano in lotte in cui la contraddizione tra metaforico e materiale smette di avere senso di esistere.
Se pensiamo a una delle proteste che hanno maggiormente attirato l’attenzione sulle inumanità del sistema di detenzione amministrativa per persone migranti, ricordiamo che molte persone migranti detenute hanno iniziato a cucire le proprie bocche con ago e filo. Questo gesto, che era stato in grado di rompere il muro di silenzio intorno ai Cie, rappresenta in maniera incarnata e materiale l’isolamento, l’opacità forzata, la cancellazione operata dal sistema detentivo. Ma anche, mi piacerebbe aggiungere, visibilizza la resistenza a uno degli aspetti più violenti di questo sistema: ovvero quella del centro di detenzione come esperienza di deprivazione sensoriale, in cui alle persone detenute vengono negati i più banali meccanismi sensoriali che producono riconoscimento, radicamento, senso dei luoghi e di sé stessi nello spazio. Mi riferisco al sequestro dei telefoni cellulari – o, nei rarissimi casi in cui non vengano sequestrati, il divieto di usarne la fotocamera – cioè l’impossibilità non solo di ascoltare la voce di persone esterne, ma anche di far vedere e far ascoltare all’esterno quello che succede all’interno. Mi riferisco anche al regime alimentare interno ai centri, uno degli elementi più presenti non solo nelle interviste alle persone detenute, ma anche nelle ragioni immediate che fanno esplodere piccole e grandi rivolte interne, spesso delegittimate dalla stampa proprio perché radicate in quelle che vengono rappresentate come «futili» ragioni di scelte o gusti alimentari.
Eppure se, come sostiene Sara Ahmed, sentirsi a casa è, innanzi tutto, un’esperienza sensoriale e corporea, legata all’associazione di suoni, odori e sapori a memorie di posti sicuri e familiari, diventa chiaro che la privazione di questi elementi significa, evidentemente, fallire nella possibilità di ricostruire un senso di casa, sperimentare costantemente e forzatamente il dolore dello spaesamento e quindi della non esistenza nel tempo e nello spazio: il Cie è, di per sé, un «elemento psicotico».
Anche per questo, occuparsi di detenzione amministrativa e provare a sostenere le lotte di chi vi è inghiottito è un esercizio politico di enorme dolore; significa, il più delle volte, fare i conti con la sconfitta oppure tenere la conta dei morti, ricordare i nomi di chi, proprio tra quelli che pensavano di essersi – o che pensavamo essere stati – salvati, non trova altra forma di resistere a questo meccanismo che non sia quella di sottrarvisi attraverso il suicidio. Dicendo i nomi di chi è morto per soffocamento detentivo, si compie una pratica attiva di memoria militante; si gettano e rinforzano le basi per un futuro abolizionista, in cui tornare a respirare.