Menu

America Latina: 1.700 attivisti ambientali uccisi in dieci anni

Secondo un nuovo rapporto, negli ultimi dieci anni, in America Latina sono stati registrati più di 1.700 omicidi di attivisti ambientali e leader delle comunità indigene, con una media di un omicidio ogni due giorni.

di Marina Lombardi

Uccisi da sicari, da gruppi di criminalità organizzata e dai loro stessi governi, più precisamente, sono almeno 1.733 i difensori della terra e dell’ambiente assassinati tra il 2012 e il 2021. Secondo i dati della ONG Global Witness, i paesi con i tassi più letali sono Brasile, Colombia, Filippine, Messico e Honduras. Il Sudamerica si conferma così la regione del Pianeta più ostile per chi, per passione o necessità, ha scelto di proteggere la natura. L’ultimo record annuale risale al 2020 quando, nonostante la pandemia, gli omicidi di attivisti ambientali hanno mietuto il triste record di 227 vittime. Nel 2021, sono state 200.

L’ONG Global Witness ha stimato le cifre dei difensori ambientali uccisi tra il 2012 e il 2021 in un rapporto redatto a seguito della morte di Chut Wutty, un ambientalista cambogiano che ha lavorato con il al fianco di Mikee Davis, CEO della stessa ONG, per indagare a riguardo del disboscamento illegale. Dal rapporto si evince che il 39% degli omicidi abbiano colpito principalmente i paesi a basso reddito e le comunità indigene, nonostante questi rappresentino solo il 5% della popolazione mondiale. Tra i fattori più comuni che hanno portato agli omicidi ci sono le industrie minerarie ed estrattive, il disboscamento e l’agrobusiness.

Nel 2021 le uccisioni arrivano a 200 persone, tra cui 8 ranger nel parco nazionale di Virunga nella Repubblica Democratica del Congo, che sta facendo i conti con una grave minaccia quale l’estrazione di petrolio e gas; l’attivista ambientale Joannah Stutchbury, uccisa fuori dalla sua casa in Kenya e Angel Miro Castagena in Colombia. A giugno di quest’anno ad essere stati uccisi, fra gli altri, ci sono Dom Phillips, il giornalista del Guardian e dell’Observer e Bruno Pereira, esperto brasiliano di tribù autoctone, assassinati nella valle di Javari, nella parte dell’Amazzonia brasiliana. I due stavano lavorando ad un libro sullo sviluppo sostenibile dal titolo How to Save the Amazon. Le indagini sugli omicidi sono ancora in corso.

L’ambientalista indiana Vandana Shiva nella prefazione del rapporto ha affermato «Non siamo solo in un’emergenza climatica. Siamo ai piedi della sesta estinzione di massa e questi difensori sono alcune delle poche persone che si frappongono. Il futuro della nostra specie e del nostro pianeta dipende da questo». I due terzi degli omicidi sono avvenuti in America Latina, con 342 morti in Brasile, 322 in Colombia, 154 in Messico e 117 in Honduras. Anche nelle Filippine i numeri risultano preoccupanti, le cui uccisioni arrivano a 270. Il problema che sta vedendo protagonisti principalmente i paesi del sud del mondo, è in realtà un problema globale, come viene affermato nel rapporto. La maggior parte della lotta alla difesa dell’ambiente si deve scontrare con corruzione di funzionari e società di investimento che rappresentano una fetta del sistema che detiene il potere, di fronte al quale gli attivisti ambientali risultano un problema da risolvere, che spesso come in questi casi viene risolto con omicidi o sequestri.

I difensori dell’ambiente alla ricerca di giustizia devono spesso fare i conti con giudici che percepiscono delle tangenti e quindi raramente vedranno lo svolgersi delle indagini in maniera giusta e regolare, e ancora meno purtroppo, vedranno pagare per le loro azioni gli autori di gravi danni che hanno impattato sull’ambiente. Nonostante questo il rapporto rileva anche alcune vittorie particolarmente importanti per gli attivisti ambientali, tra cui in Sud Africa lo scorso anno, le comunità indigene della costa dell’Eastern Cape che hanno ottenuto una vittoria legale su Shell, riuscendo a costringere l’Azienda ad interrompere l’esplorazione petrolifera nei luoghi di riproduzione della balene, la cui sentenza è stata confermata all’inizio di questo mese. Inoltre, a maggio del 2022 le comunità indonesiane dell’isola di Sangihe, hanno vinto una causa contro una società che voleva estrarre oro sulla loro isola. Il rapporto infine si premura di esortare i giovani a creare spazi civili e sicuri per i difensori dell’ambiente e a puntare sulla responsabilità legale delle aziende favorendo un clima di tolleranza zero per la violenza contro gli attivisti ambientali.

da L’Indipendente

 

Comments ( 1 )

  • Gianni Sartori

    LA MONTAGNA-SPETTACOLO E’ UNA MERCE, L’ALPINISMO SEMPRE PIU’ UNA FORMA DI SFRUTTAMENTO E COLONIZZAZIONE

    Gianni sartori

    L’inquietante domanda, su “L’alpinismo come forma di colonialismo?” ormai non va nemmeno posta. Se pur scritto con il punto interrogativo (nel titolo) il mio intervento di un paio di anni fa aveva scatenato le ire della lobby di coloro che vivono di “Montagna”. O meglio: sfruttandone l’immagine spettacolare e mercificata.
    Eventi successivi come la pandemia l’hanno resa superflua.
    Perfino tra gli addetti ai lavori qualche mese fa si potevano cogliere commenti critici – ma forse sarebbe il caso di passare decisamente al disgusto – per le vere e proprie cataste di bombole d’ossigeno abbandonate intorno ai campi base in Nepal (Everest, Dhaulagiri…). Almeno quattro a testa per centinaia di turisti-alpinisti e portatori (non chiamiamoli sempre sherpa per favore, è una etnia e non tutti si prestano a portare il fardello dell’uomo bianco) mentre a causa della pandemia gli ospedali erano saturi, nemmeno lontanamente in grado di gestire non dico le terapie intensive, ma perfino l’ordinaria amministrazione.
    E intanto gli alpinisti infettati dal Covid-19, o temendo di esserlo, pretendevano e ottenevano di farsi evacuare con gli elicotteri delle agenzie private (anche grazie a false dichiarazioni o diagnosi di “edema polmonare da aria sottile” per usufruire delle assicurazioni).
    Ma d’altra parte stupirsene sarebbe da ingenui. Questo è il mondo che anche la lobby dell’alpinismo variamente inteso, dai produttori di materiali tecnici alle agenzie commerciali (ma comprendente scrittori di montagna, promotori turistici, elicotteristi, eccetera) contribuisce a costruire e alimentare. Un bel giro d’affari, sia chiaro. Chiamiamolo businnes, capitalismo, società dello spettacolo o come vi pare, ma ormai (e non solo sul “tetto del mondo”) assume tutti i tratti di un moderno colonialismo. Per quanto riciclato e – malamente – camuffato.
    Non che sull’altro versante le cose vadano meglio. La Cina soidisant comunista starebbe pianificando un inedito sfruttamento turistico-alpinistico delle montagne e l’estensione della rete 5G fino alle alte quote. Così in futuro anche gli alpinisti più social, occidentali e non, potranno restare collegati permanentemente e trasmettere in diretta i loro autoscatti (forma italica per selfie). Per poi magari, è accaduto di recente, vedere uno di questi personaggi sentenziare in televisione sulla necessità di lavarsi meno per non sprecare energia (invece di rinunciare all’elicottero per raggiungere più vette in minor tempo).

    E il Pakistan (di cui mi occupavo in buona parte dell’intervento ricordando alcuni recuperi di alpinisti che evidentemente si erano spinti ben oltre le loro possibilità o semplicemente non avevano tenuto conto dei rischi di crolli nell’epoca del riscaldamento globale)?
    Qui, notoriamente, l’utilizzo degli elicotteri appare più complicato in quanto sostanzialmente in mano all’esercito pakistano, che eventualmente (pagando in anticipo, sappiatevi regolare) li mette a disposizione tramite l’agenzia Askari (?!?) gestita comunque da ex militari di alto grado (quando non li stanno utilizzando per scaricare in mare dissidenti e oppositori, preferibilmente beluci, in puro stile argentino). Tra l’altro, gli elicotteri sarebbero autorizzati a volare non oltre i 6500 metri. Poi è il pilota a prendersi eventualmente la responsabilità. Regolatevi quindi.
    E sarebbe interessante sapere cosa sta accadendo ora, sempre in Pakistan, dopo le devastanti alluvioni derivate dallo scioglimento dei ghiacciai.
    Insomma, ripeto, restarsene a casa sarebbe il minimo.

    Gianni Sartori