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Arabia Saudita: il boia non va in ferie

Sono oltre 200 le persone giustiziate in Arabia Saudita nei primi dieci mesi del 2024. Inoltre, nonostante il decreto reale n° 46274 del 2020, permangono preoccupazioni per la sorte di condannati minorenni all’epoca del reato. Un bagno di sangue per “ripulire il braccio della morte”.

di Gianni Sartori

L’8 ottobre 2024 il Dipartimento degli Affari Esteri (DFA) di Manila annunciava l’avvenuta esecuzione di un cittadino filippino, reo – stando alle accuse – di aver ucciso un saudita. Notizia confermata dall’ambasciata filippina a Riyadh.

Uno dei tanti casi che quest’anno hanno portato l’Arabia Saudita, con oltre 200 esecuzioni documentate,  a superare ogni suo record da trent’anni a questa parte in materia di pene capitali (in precedenza era quello del 2022 con 196 esecuzioni, 184 nel 2019).

Complessivamente sarebbero almeno 1.115 quelle avvenute sotto il governo del principe ereditario bin Salman (ossia da 21 giugno 2017 al 89 ottobre 2024).

Per Amnesty International sarebbero almeno 198 le persone già giustiziate in Arabia Saudita tra l’inizio dell’anno e il mese di settembre. Poi la lista è andata allungandosi ulteriormente.

Altre fonti – come il gruppo londinese per i diritti Reprieve – denunciano un numero superiore, circa 213 ai primi di ottobre.

Confermando comunque quanto già detto: si tratta del maggior numero di esecuzioni degli ultimi trent’anni.

Per Harriet Mc Culloch (vice direttore di Reprieve) “l’Arabia Saudita sta ripulendo il braccio della morte con un bagno di sangue“.

E tutto questo nonostante le dichiarazioni d’intenti (promesse, promesse..) di volersi ”limitare”. In realtà l’attività del boia è andata intensificandosi, in barba spesso ai diritti degli imputati, di quelli della difesa e delle norme internazionali.

Tra le condanne a morte eseguite, oltre una cinquantina sarebbero legate al traffico di stupefacenti.

Almeno ufficialmente, dato che non di rado costituiscono un pretesto per colpire dissidenti politici. In particolare esponenti della minoranza sciita che avevano in qualche modo preso parte alle proteste(in particolare a quelle tra il 2011 e il 2013). Ricordiamo che le componenti sciite delle “primavere arabe” in Arabia Saudita e nel Bahrein sono state quantomeno “trascurate” – se non addirittura ignorate – dai media internazionali. In “compenso” rientrava nelle dichiarate intenzioni dell’Isis eliminare fisicamente la presenza sciita dalla penisola arabica. Vedi le azioni terroristiche contro le moschee sciite dell’Arabia Saudita, colpite durante la preghiera del venerdì (giorno di maggior afflusso) con decine di vittime e centinaia di feriti.

Per Agnès Callamard, segretaria generale di Amnesty International “le autorità saudite si stanno dedicando con frenesia mortifera alle esecuzioni, dando prova di un agghiacciante disprezzo per la vita umana. Promuovendo nel contempo un’insensata campagna per rifarsi l’immagine”.

Campagna – ricordo agli smemorati – che gode di qualche estimatore anche nel ceto politico nostrano.

Un caso emblematico quello di Abdulmajeed al Nimr, un ex vigile urbano la cui sentenza è stata eseguita due mesi fa (v. annuncio della Saudi Press Agency del 17 agosto). Veniva accusato di far parte di Al Qaïda, in realtà per aver partecipato alle manifestazioni antigovernative nell’est del Paese, area a maggioranza sciita (il che stride alquanto con la sua presunta partecipazione a Al Qaïda).

Altro aspetto piuttosto inquietante, quello delle esecuzioni di minorenni.

Qualche mese fa, in maggio, alcune decine di organizzazioni attive nel campo della difesa dei diritti umani avevano sottoscritto un appello, * inizialmente promosso da ACAT(Azione dei Cristiani per l’Abolizione della Tortura) di Francia, Belgio, Germania e Liberia e da ADPAN (Anti-Death Penalty Asia Network) per due giovanissimi, Yousif Al-Manasif e Ali Al-Mubaiouq, in imminente pericolo di vita. In quanto la Corte suprema ne aveva confermato (in un primo momento segretamente) la condanna a morte.

Stessa sorte (“condanna a morte definitiva”) per Abdullah Al-Derazi (17 anni al momento del reato) e Jalal Al-Labad (15 anni al momento del presunto reato). Incamminato verso il medesimo destino un’altro detenuto, minorenne all’epoca del presunto reato: Mahdi Al-Mohsen nei cui confronti era già stata emessa una “condanna preliminare”.

Mancava solo la firma del sovrano.

Le organizzazioni firmatarie si mostravano preoccupate nonostante un decreto reale (n° 46274 ) emesso nell’aprile 2020, prevedesse l’abolizione della pena di morte per i minorenni. Ma sappiamo che altrove, per es. in Iran, si ricorre al sotterfugio di attendere la maggiore età del condannato, in genere i 18 anni, per condurlo al patibolo. Del resto in Arabia saudita, nonostante tale annuncio, nel giugno 2021 era stata eseguita la condanna a morte per Mustafa Al-Darwish, minorenne all’epoca del reato di cui era stato accusato e riconosciuto colpevole. I quattro casi considerati rientrerebbero nella norma della giustizia islamica denominata taazir (ossia una forma di punizione per cui non c’è una specifica disposizione nella sharia ed è quindi sottoposta alla discrezionalità del giudice. Questi ragazzi inoltre, durante la detenzione, avrebbero subito violazioni dei diritti umani: sparizione forzata e isolamento per mesi oltre a maltrattamenti e torture.

Va ricordato che, soprattutto nei confronti dei dissidenti politici, la tortura vine utilizzata per estorcere confessioni per cui in molti casi si dovrebbe parlare di condanne arbitrarie. E’ questo il caso di militanti non-violenti e prigionieri d’opinione accusati in base alle leggi antiterrorismo.Altro aspetto da considerare, il fatto che più della metà dei condannati a morte sono stranieri, non cittadini sauditi.

Volendo contestualizzare, come si spiega la grande tolleranza mostrata dai media occidentali nei confronti di questa dittatura sanguinaria e medievale? Come mai Riyadh non viene altrettanto criticata come capita, per esempio, con Teheran? A cui vengono regolarmente mosse accuse, in gran parte fondate naturalmente, di violazione dei diritti umani e in particolare nei confronti delle donne.

Anche se gran parte delle basi militari statunitensi si trovano in Qatar (base aerea Al Udeid), Bahrein e Kuwait (oltre che in Iraq e anche in Siria**), i rapporti tra Washington e Riyadh rimangono strutturali (v. l’utilizzo da parte statunitense della base militare Prince Sultan, le forniture di armamenti, l’accesso alla tecnologia militare avanzata, la cooperazione nel nucleare…) .

Per cui – insieme a Israele – l’Arabia saudita rimane uno dei capisaldi, dei principali punti d’appoggio in Medio Oriente di quello che una volta veniva definito la “fase suprema del capitalismo”.

Vorrà pur dire qualcosa, no?

* nota 1: https://worldcoalition.org/fr/2024/05/03/vives-inquietudes-pour-la-vie-des-personnes-mineures-condamnees-a-mort-en-arabie-saoudite/

**nota 2: In Siria la più nota è l’avamposto al Tanf (v. Tower 22), un’ex prigione al confine tra Iraq e Giordania. Altre due, al Omar (più conosciuta come Omar Oil Field) e al Shaddadi, si trovano nel nord-est del Paese. Ufficialmente il migliaio scarso di soldati statunitensi qui insediati dovrebbe occuparsi dell’addestramento delle milizie curde, arabe e assiro-siriache denominate Sdf (Forze democratiche siriane).

 

 

 

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