Aveva definito “delinquenti” i quattro poliziotti allora sotto processo per l’omicidio colposo di suo figlio. Tre di loro l’avevano denunciata ma un giudice di Mantova le ha dato ragione. Accuse archiviate perché Patrizia Moretti, la mamma di Federico Aldrovandi, aveva ragione. «Non consideriamo – così disse all’Ansa Patrizia il 5 luglio 2008 – quelle persone come rappresentanti delle istituzioni, ma solo come delinquenti». Nelle motivazioni, uscite mercoledì, il giudice ritiene che quelle considerazioni «non fossero affatto espressione di una critica ingiustificata e totalmente disancorata dalla ponderata valutazione di circostanze obiettive idonee a fondare quel personale convincimento della madre della vittima». In quel periodo, «contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa degli agenti», il processo era già iniziato e in fase «di avanzata istruttoria». Già allora sussistevano «molteplici prove del fatto che l’intervento operato dai poliziotti era stato caratterizzato da un uso della forza assolutamente eccessivo e sproporzionato rispetto alla finalità di bloccaggio dell’Aldrovandi che doveva essere perseguita». Quando Patrizia rilasciò l’intervista «erano già molteplici le emergenze comprovanti che a carico dell’Aldrovandi era stata esercitata una violenza non solo eccessiva e sproporzionata rispetto all’offesa da respingere, ma addirittura tale da integrare un vero e proprio “pestaggio” («assolutamente non necessario avuto riguardo all’entità dell’offesa posta in essere dal giovane», dirà il giudice in un altro passaggio, ndr) con uso di corpi contundenti assolutamente non tollerabile in un sistema democratico». Al gip mantovano, competente per territorio, non sfuggono «le difficoltà in cui sono chiamate ad operare quotidianamente e in modo meritorio le forze di polizia e il senso di frustrazione che in alcune occasioni può – sotto il profilo umano – cogliere le forze dell’ordine nel vedersi aggredite od offese da terzi soggetti». Ma «è proprio in queste situazioni che si misura la tenuta del sistema democratico e che entra in gioco la professionalità delle forze di polizia, le quali devono sempre aver presente che l’uso della forza deve costituire l’extrema ratio e che, anche quando necessario, deve essere sempre proporzionato e commisurato all’offesa da fronteggiare». Parole chiarissime che tendono a « stigmatizzare e a sottoporre legittimamente a critica, anche aspra» l’hobby di troppi operatori in divisa di esercitare «una forza repressiva obiettivamente e ingiustificatamente eccedente i limiti consentiti». Vada come vada il processo d’appello – fissato per il 17 maggio 2011 – un pestaggio come quello di Via Ippodromo del 25 settembre 2005 – «continuerebbe comunque ad integrare comportamento illegittimo». Non sfugge al gip che «colleghi e superiori» degli agenti «anziché consentire che i fatti fossero accertati in modo obiettivo, avevano fatto in modo di raccogliere il maggior numero possibile di elementi confermativi della tesi difensiva dei quattro poliziotti, facendo in modo di non avere la scomoda presenza né del pm, né dei familiari della vittima (avvertiti del decesso solo alcune ore dopo) sul luogo del delitto». Come altro avrebbe potuto definirli «una madre che aveva pacificamente perso il proprio figlio in occasione di un intervento di polizia caratterizzato da un uso della forza che definire eccessivo è riduttivo»? Però, proprio alla vigilia della manifestazione anti-bavaglio di Piazza Navona, la polizia ha suonato ancora a casa Aldrovandi. Stavolta era per notificare un’altra querela. A sentirsi diffamata, con immenso stupore della famiglia è la pm di turno quella notte che fù raggirata da chi fece le prime indagini e persuasa a non recarsi sul luogo del delitto.
Checchino Antonini
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