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I bambini scomparsi per decreto. La sofferenza dei più piccoli nei giorni del coronavirus

[Pubblichiamo la testimonianza e le riflessioni di Rosa S., antropologa, documentarista, madre di un figlio che frequenta le scuole elementari, o meglio, le frequentava prima della chiusura. Rosa invita a prestare attenzione ai bambini reclusi in casa, ad ascoltarli e a non sottovalutare il trauma che stanno subendo. Il suo testo è accompagnato da una postilla di Wu Ming 4 sullo stesso tema. È il primo di una serie di post, con i quali intendiamo dare testimonianza delle ricadute dell’emergenza sulla vita quotidiana di soggetti deboli e non solo. Buona lettura. WM.]
di Rosa S.
Fino a quando si è potuto, andavo a fare due passi con mio figlio nel parco vicino a casa, di solito verso l’ora di pranzo. Non vedevamo nessuno per centinaia di metri. Mi sembrava importante che il bambino potesse avere almeno un’ora d’aria al giorno, per prendere un po’ di sole e tirare due calci a un pallone, o rivedere l’erba. Andare al parco, anche se solo con me e non con i suoi amici – quindi non il massimo del divertimento, lo capisco – mi sembrava fosse per lui l’unico momento per riagganciarsi alla sua “vecchia” normalità e sopportare meglio la quarantena. Per i bambini, ricordiamocelo, la vita è stata sconvolta già più di un mese fa, quando sono state chiuse le scuole, le palestre, le piscine, insomma tutte le attività della loro quotidianità.
Il 21 marzo un nuovo decreto ha sancito altre misure straordinarie. Vengono citati i cani (come negli altri decreti): a loro è permesso essere accompagnati sotto casa dai loro padroni per fare una passeggiatina. E i bambini, per caso è permesso anche a loro? Non si sa. I bambini non si citano ormai da tempo, in nessun decreto. È come se fossero scomparsi, chiusi nelle loro case. Assicurando la possibilità di uscire soltanto a chi deve andare a lavorare o fare la spesa (uno alla volta), la si è negata a loro. I bambini sono segregati h24.
Con il passare dei giorni e l’avvicinarsi dei 3 aprile loro attendono sempre più ansiosi il ritorno alla “normalità”, neanche fosse Natale. Ma ormai è chiaro anche alle pietre che le scuole non riapriranno né il 3 aprile né probabilmente il 3 maggio. Loro sono quelli con la vera fama di “untori”: non si ammalano, non hanno sintomi, ma sono vettori del virus, quindi bisogna evitare che si incontrino e lo diffondano.
Cosa dobbiamo fare dunque noi genitori? Cominciamo a prepararli, senza avere nessuna indicazione dalle scuole o dal governo, o li lasciamo nella loro illusione e ingenuità?
Da un mese non vedono più i loro compagni e le loro maestre, che prima frequentavano più della famiglia, 8 ore al giorno, per 5 giorni alla settimana.
In tante scuole gli insegnanti si sono organizzati come hanno potuto. Nella classe di mio figlio (4a elementare) le maestre cercano di fare il possibile, ma purtroppo non sono attrezzate per fare videoconferenze e nessuno dal Ministero dell’Educazione si è premurato di insegnarglielo, nemmeno durante tutto questo intero mese di chiusura.
Hanno solo a disposizione un sito istituzionale di proprio non immediata comprensione, a dire il vero. Un menu indica la possibilità di partecipare a delle aule virtuali: peccato che non ci si possa vedere con la videocamera né sentire con l’audio. Nelle aule virtuali c’è un live forum, in cui però si può solo chattare.
Ora, già è difficile comunicare in una chat con adulti, figuriamoci con 25 bambini, in contemporanea. Eppure vengono fuori pensieri interessanti: chi si sorprende a supplicare le maestre di tornare a fare lezione, quando prima non voleva mai andare a scuola; chi esprime una nostalgia profonda; chi dice di non riuscire a dormire la notte, perché passano troppe ambulanze; chi dice che le giornate ora sono fatte di niente. Alcuni manifestano un cinismo che fa accapponare la pelle: tanto non serve a nulla, tanto moriremo tutti. Sentono le notizie al telegiornale e sciorinano nel dettaglio i numeri del bilancio di morti giornalieri e litigano sulla precisione delle loro fonti: «oggi ci sono stati 753 morti». «No, al TG5 hanno detto che sono stati 723», risponde l’altro. E poi una domanda: «Ma se si ammalano i nostri genitori, noi con chi stiamo?»
A questa domanda nessuno risponde, come non si risponde ad altri bimbi che chiedono: «ma di cosa parliamo?». Ognuno procede per conto suo scrivendo sul proprio computer, nessuno riesce a sintonizzarsi con nessun altro, e la frustrazione sale. Problemi comuni delle chat, forse si potrebbe pensare a strumenti di comunicazione un po’ più efficienti.
Chi si occupa delle paure di questi bambini? Chi si occupa di rispondere alle loro domande? Le loro vite procedono sospese, appese ad un balcone, in attesa di un futuro “ritorno” che appare sempre più lontano. I compiti mio figlio li fa svogliatamente, gli manca un riscontro. L’unico lavoro che ha fatto volentieri è un testo di italiano in cui doveva descrivere un amico. Ha scritto queste righe che ho deciso di pubblicare per far capire quanto sia importante sentire la loro voce, perché stanno vivendo un’esperienza inaudita che va – necessariamente – elaborata.
Un’amica mi dice che sta facendo un diario visivo con i figli usando la tecnica del collage. Il primo lavoro fatto è talmente espressivo che non ha bisogno di commenti (vedi sotto). Però sta terminando fogli e colla, e nei supermercati non li vendono perché non sono beni essenziali. Ma non sono essenziali per chi? Per gli adulti forse. Ma nessuno ha pensato che sono oggetti fondamentali per i bambini?
Quel che stanno provando ora, all’inizio della loro vita, li accompagnerà per gli anni a venire. Ci guardano e ci osservano, dipendono da noi e dalle nostre scelte.
Noi forse, ancora così spiazzati – che abbiamo difficoltà ad accettare quel che accade, che tutto ci sembra sempre così surreale, la parola più usata sul web, «surreale» – ecco noi, forse, oggi, possiamo imparare qualcosa da loro. Quello che ci sta accadendo è più che reale e concreto e dobbiamo trovare delle soluzioni. Al più presto, e insieme a loro. Chiediamogli di scrivere e di raccontarci. Di aiutarci a capire, forse sono loro quelli più lucidi, ora.
TESTO SCELTO: ALE, IL MIO VICINO DI CASA
Stare a casa per evitare il Coronavirus, senza vedere nessuno, è veramente una noia.
Per fortuna che c’è il mio vicino di casa: Ale. Ha un anno in meno di me, e abita esattamente nell’appartamento sotto il mio.
Lui è più basso di me, è molto magro e forte, non mangia tanto perché si riempie di acqua, cioè si beve molti bicchieri d’acqua prima di mangiare.
La sua caratteristica principale è che adora il calcio. Prima del Coronavirus si allenava tre volte a settimana e lo chiamavano il sabato o la domenica per fare i tornei, quindi lo vedevo poco. Ora lui, come me, deve stare a casa, ma ci vediamo dal balcone.
Per scambiarci libri e giochi abbiamo questo metodo: ce li lasciamo davanti alla porta di casa e bussiamo e ce ne andiamo di corsa a parlare in balcone. In balcone facciamo questo gioco, sennò ci annoiamo a morte: uno di noi prende matita, gomma e foglio, l’altro dice cosa deve disegnare, facciamo a turno. Ci divertiamo molto a vedere i disegni dell’altro.
Ale è molto simpatico e dal balcone mi racconta tante, forse anche troppe, notizie sentite o inventate. A volte lui va a giocare a calcio in cortile con suo papà e io faccio l’osservatore da su. Ho chiesto a mia madre se potevo fare l’osservatore da giù, che tanto stavo a un metro di distanza, ma lei ha detto che non si può, sennò ci fanno la multa.
Però almeno ci possiamo parlare dal balcone, finché tutto non ritorna come prima.

Postilla

di Wu Ming 4
Da quando è cominciata la clausura forzata, mio figlio minore, 7 anni, un tipo per sua fortuna normalmente sereno e positivo, ogni tanto viene da me, chiede di essere preso in braccio, e si fa un pianto di qualche minuto. Non c’è bisogno di dirsi granché. Restiamo lì per un po’. Poi, dopo qualche parola di conforto (magari gli tocca sorbirsi la solita citazione dal Signore degli Anelli), torna tranquillamente a fare i suoi compiti o a giocare con i giocattoli che ormai invadono ogni angolo della casa, o a vedere video e cartoni animati sul tablet. A volte disegna. Il soggetto è sempre lo stesso: scene d’assedio.
All’ennesima fotografia giunta sulla chat genitoriale, con il/la compagno/a di classe in posa con sorriso stirato e cartello arcobaleno «Andrà tutto bene», lui ha proposto di farne una mentre si punta una pistola giocattolo alla tempia, con il cartello «Che due palle». Proposta ovviamente cassata per quieto vivere, anche se mi ha fatto piangere il cuore reprimere una reazione così spontanea, che avrebbe detto l’ovvio, quindi – in tempi di militarizzazione patriottarda dell’immaginario – l’indicibile. Mio figlio è un disfattista? Forse è soltanto uno che non capisce come potrebbe infettare chicchessia se gli venisse concessa un’ora d’aria come ai carcerati, a debita distanza da tutti. Perfino i cani stanno meglio di lui.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità in tempi di Coronavirus consiglia precisamente questo: mezz’ora d’attività fisica al giorno per gli adulti e un’ora per i bambini (non parla di cani), passeggiate e giri in bicicletta a distanza di sicurezza. Lo stesso dicono scienziati farmacologi come Silvio Garattini, e medici-biologi come il presidente del comitato scientifico della Società Italiana di Medicina Ambientale Ernesto Burgio. Perfino il governatore dello Stato di New York, uno dei più colpiti degli Stati Uniti, non ha proibito le attività all’aperto, le ha solo limitate, ponendo la condizione di evitare i contatti e mantenere rigidamente le distanze. Sempre nello Stato di New York, il Dipartimento di Conservazione Ambientale ha reso gratuito l’ingresso a tutti i parchi naturali, perché stare all’aria aperta durante la pandemia è salutare.
Di fronte al diktat «RESTATE A CASA», al vietato mettere il naso fuori se non per andare in fabbrica o al supermercato, i bambini scompaiono. Li abbiamo segregati come massimi potenziali untori – ma soltanto dopo averli messi a casa da scuola, quindi affidati ai nonni per due settimane – e ce li siamo dimenticati. Anzi, li abbiamo costretti a girare video domestici per incitare tutti a chiudersi in lockdown, reclutandoli di fatto in una campagna propagandistica fai-da-te che contraddice i consigli della stessa OMS.
Le conseguenze di tutto questo sulla loro psiche le sconteremo negli anni a venire. Ma saremo troppo impegnati ad affrontare la recessione più grave della storia e a fare i conti con il nuovo totalitarismo partorito dall’emergenza per preoccuparci ancora di loro. E magari nel frattempo si saranno fatti grandicelli e toccherà a uno psicologo scavare nel trauma.
Intanto dalla Cina fanno sapere che chiudersi in casa ottiene il risultato di fare certamente infettare tutti i nuclei famigliari dei positivi, quindi in realtà estende il contagio. Dicono che, contrariamente allo stereotipo, il punto non è «sbarrare tutto», ma mettere in campo provvedimenti “attivi”, creare «corridoi sanitari» per lo screening dei positivi, ricoverare i contagiati in luoghi appositi. Per farlo servono tamponi, personale medico e spazi adeguati. Spazi che dovremmo rendere il più possibile confortevoli e degni, e che si potrebbero creare riaprendo gli ospedali chiusi negli ultimi anni, o requisendo le strutture sanitarie private, oppure requisendo temporaneamente gli alberghi, dato che sono tutti vuoti, come si sta iniziando a fare… adesso.
Una cosa che certamente i cinesi non hanno fatto è mettere