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Berlino: repressione poliziesca contro chi manifesta per la Palestina

Da oltre un anno nella capitale tedesca viene organizzato un corteo in solidarietà con il popolo palestinese per denunciare il massacro in corso nella Striscia di Gaza e protestare contro il sostegno incondizionato della Germania al Governo Netanyahu. La risposta della polizia è sempre più brutale. Luisa Chiodi, direttrice di Osservatorio Balcani Caucaso Transeuropa, ne è stata testimone diretta

di Luisa Chiodi da altreconomia

Come ogni sabato, da un anno a questa parte, a Berlino viene organizzato un corteo in solidarietà con la Palestina, per denunciare il genocidio a Gaza e protestare contro il sostegno incondizionato della Germania al governo israeliano.

A metà ottobre la manifestazione non si è tenuta nelle strade calde di Neukölln, quartiere nel distretto Sud centrale della capitale tedesca, dove vive una consistente comunità di immigrati di origine araba, e in particolare la più grande comunità di palestinesi in Europa. La polizia, infatti, ha costretto gli organizzatori ad allontanarsi dal quartiere motivando la scelta con ragioni di sicurezza. 

Come ogni sabato la polizia in assetto antisommossa schiera un cordone attorno ai manifestanti e interviene brutalmente contro chi individua come “antisemita” secondo criteri arbitrari. Anche il 12 ottobre si sono verificati pestaggi da parte delle forze dell’ordine che gli attivisti documentano ampiamente da mesi.  

La novità però è il fermo di Salah Said, uno dei leader del movimento di solidarietà con la Palestina. Mentre veniva scortato verso il cellulare, uno dei poliziotti gli faceva sapere che lo conoscono, che seguono la sua attività sui social. Lui ha reagito traducendo in inglese ad alta voce quanto gli veniva detto, denunciando l’intimidazione mentre altri filmavano la scena subito postata sui social. Pochi giorni prima in un altro video su Instagram aveva fatto sapere di essere stato fermato per un interrogatorio e una perquisizione all’aeroporto, di ritorno da un viaggio negli Stati Uniti.  

Nei giorni caldi a ridosso dell’anniversario del 7 ottobre altri membri del movimento sono stati raggiunti da perquisizioni a casa mentre ad altri ancora era stato imposto il divieto di recarsi alle manifestazioni. Salah alcuni anni fa aveva ricevuto un premio per il suo impegno civico di giovane di origine migrante residente a Berlino. Oggi il suo attivismo per la Palestina lo sta mettendo sotto grande pressione, nonostante sia l’ultima persona ragionevolmente sospettabile di terrorismo. 

Nel corteo decisamente più ridotto del solito dato il cambio di percorso del 12 ottobre scorso ho sentito una giovane donna esprimere riconoscenza verso un’altra. Le due si sono scambiate parole commosse. La prima mi ha poi spiegato che non le era mai capitato di incontrare nel movimento di solidarietà uno dei suoi docenti: “Ci parlano di integrazione ma poi ci lasciano soli. Perché non sono al nostro fianco mentre siamo costretti ad assistere alla violenza indiscriminata verso la nostra gente, alla distruzione delle nostre città, al genocidio del nostro popolo? Perché la nostra disperazione non suscita empatia, perché veniamo discriminati?”.

Alla manifestazione contribuiscono regolarmente persone da tutto il mondo. Tra questi vari ebrei antisionisti che a loro volta finiscono accusati di antisemitismo: con le sue azioni punitive è la polizia tedesca a stabilire che si tratti evidentemente di cattivi ebrei. Le immagini dell’attivista LGBTQ+ ebreo che indossa la kippa oltre alla kefjia e viene trascinato a forza fuori dal corteo dalle forze dell’ordine genera una certa inquietudine.  

Il movimento denuncia da mesi la deriva autoritaria della Germania per la repressione sistematica che subisce, inaccettabile in uno stato di diritto. Ma la situazione non cambia: Israele va sostenuta senza indugio, chi non è d’accordo con questa scelta, quanto meno ottusa, va disciplinato e se uno non ha la cittadinanza tedesca non è escluso il rischio di espulsione.

Se la scarsa solidarietà dei tedeschi genera sofferenza nella minoranza discriminata, nel Paese nessuno dovrebbe sottovalutare i rischi che comporta limitare la libertà di espressione in caso di contestazione di scelte politiche, né tanto meno la gravità dell’esercizio della violenza da parte della polizia su manifestanti pacifici. 

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