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Carcere: il Coronavirus non si trasmette per telefono

Leggo: “Coronavirus, sospesi i colloqui dei detenuti, l’accesso in carcere dei volontari, i permessi premio.”

I prigionieri di libertà già ne hanno poca, ora quella che rimane se la divora il Coronavirus.

Mi chiedo perché i nostri governanti non approfittino di questa emergenza per liberalizzare le telefonate dei detenuti ai propri familiari, come accade già normalmente in molti Paesi esteri.

Quanti suicidi di prigionieri si potrebbero evitare!

Ho pensato di divulgare questo mio articolo sull’argomento, che ho scritto quando stavo in carcere:

“I condannati possono essere autorizzati dal direttore dell’istituto alla corrispondenza telefonica una volta alla settimana. La durata massima di ciascuna conversazione telefonica è di dieci minuti”.

(Fonte: articolo 39 – Corrispondenza telefonica. D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230).

Normalmente telefono di domenica. Verso l’una del pomeriggio, quando ho più probabilità di trovare tutti i miei familiari a casa. Prima di telefonare sono sempre in agitazione. E guardo continuamente l’orologio, rimango teso fino a quando non faccio il numero di casa. Nel frattempo il pensiero dei miei figli inizia a poco a poco a occupare tutta la mia mente. E tutto il mio cuore.

Finalmente è l’orario. Sono sempre in anticipo di qualche minuto. Non mi preoccupo: tanto a casa lo sanno. Corro nella celletta dove c’è il telefono, accosto il blindato. E faccio il numero. Trovo la linea libera. Attendo qualche istante. Poi dall’altra parte del filo sento trattenere il respiro. In sottofondo ascolto le voci dei miei due nipotini. Poi sento bisbigliare mio figlio: Passami il telefono! Ascolto il rumore di un cuscino che sbatte. “Sono arrivata prima io!” Subito dopo avverto un grugnito di mio figlio: “Sei una stronza, tanto papà vuole più bene a me che a te!” Sento mia figlia sospirare: “Pronto…” L’ho lasciata che era una bambina e da allora è quasi sempre lei che prende per prima il telefono.

Amore.”  Si potrebbe dire che da ventitré anni  mi aspetta vicino al telefono.

“Papà!”

Le chiedo: “Come stai?”

“Bene papà e tu?”

“Anch’io.” Voglio bene ai miei figli anche perché sono diventate le persone che avrei voluto essere io nella mia vita.

“Ti vengo a trovare la prossima settimana.”

“Va bene amore.”

“Cosa vuoi che ti porto da mangiare?”

“La focaccia con le cipolle.” Quando telefono sembra che il tempo voli via.

“Va bene.” E non posso fare nulla per fermarlo.

“Amore, adesso passami tuo fratello.” Non ho mai capito perché quando telefono sembra quasi che i secondi volino via come le foglie in autunno.

“Papà, ti amo.”  E non li puoi afferrare.

“Anch’io amore.” E con il passare degli anni sembra che i minuti al telefono diventino sempre più brevi.

“Papà, come al solito si è consumata tutta la telefonata lei…” Se solo ci dessero più tempo.

“Lasciala stare, sai com’è fatta.” E più telefonate.

“Papà ci sono i bambini che stanno aspettando.” Mio figlio si lamenta sempre di sua sorella.

“Chi ti passo per primo?”

“È uguale.”

“Ciao nonno Melo.”

“Ciao amore.” 

“Nonno, quando vieni a casa? Ce la fai a venire a casa prima che compio dieci anni?”

“Certo, adesso però amore passami tuo fratellino che la telefonata sta per finire.”

“Ciao nonno.”

“Ciao amore.”

Il mio secondo nipotino è più scalmanato di suo fratello: “Nonno, penso che le telefonate dove sei tu durino così poco perché le guardie sono cattive.”

Muovo la testa da una parte all’altra: “No amore, non sono cattivi.” Poi chiudo gli occhi.

“E allora perché non telefoni tutti i giorni?”

 E penso a come rispondergli: “Perché qua la linea si prende male e dobbiamo fare a turno per telefonare.”

 Non voglio che imparino ad odiare lo Stato.

Amore, adesso passami la nonna perché ormai c’è rimasto poco tempo.” La sua vocina si fa più dolce:

“Va bene nonno, ti voglio bene.”

È il turno della mia compagna. E scatta l’avviso che la telefonata sta per terminare. Fra trenta secondi cadrà la linea. E ci rimangono solo una manciata di secondi. Non capirò mai perché ci danno così poco tempo per telefonare a casa. Mi sembra una pura cattiveria. In fondo la telefonata la paghiamo noi.

Cade la linea. E mi arrabbio perché come al solito io e la mia compagna non abbiamo avuto il tempo di mandarci neppure un bacio o di dirci qualche parola affettuosa. Sospiro. Mi sento di nuovo solo. E contro tutto il resto del mondo. Ho il cuore pesante. Mi sento frustrato. E penso che le telefonate potrebbero essere più lunghe e più numerose.

Ritorno nella mia cella come un lupo bastonato, mi chiedo perché il carcere abbia così paura e terrore dell’amore dei nostri familiari e ci proibisca le telefonate libere e i colloqui riservati, come accade negli altri Paesi. Non riesco a trovare una risposta razionale. Penso che i buoni quando puniscono non sono meno malvagi dei cattivi.

Carmelo Musumeci