«La sofferenza, sia essa la risultante di proprie azioni anche criminose, del proprio desiderio di una vita diversa e altrove, della propria vulnerabilità soggettiva, merita sempre riconoscimento e rispetto. Merita un linguaggio adeguato, soprattutto da parte di chi ha compiti istituzionali. L’espandersi di un linguaggio aggressivo e a volte di odio, costruisce culture di inimicizia che ledono la connessione sociale e che, una volta affermate è ben difficile rimuovere». Così Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, ha concluso la sua Relazione annuale al cospetto delle più alte cariche dello Stato, tra le quali il presidente della Repubblica, il presidente del Consiglio, il Presidente della Camera, il presidente della Corte Costituzionale e il ministro della Giustizia. A proposito di linguaggio aggressivo echeggiavano nella testa di tutti i presenti a Montecitorio quelle espressioni truci, anti-costituzionali, oggi ricorrenti nella retorica istituzionale, come «marcire in galera» o «buttare la chiave».
Straordinaria, alla luce dei tempi che stiamo vivendo, è la relazione del Garante, nella sua capacità di tenere insieme un alto piano teorico con una dimensione statistica ed empirica, frutto delle visite effettuate in oltre cento luoghi di privazione della libertà. «Bisogna avere visto», scriveva uno dei più grandi giuristi del novecento, Piero Calamandrei, nel secondo dopoguerra, a proposito della sua richiesta di un’inchiesta sulle carceri e sulla tortura. Il Garante nazionale è andato dunque a vedere cosa accade nelle carceri per minori e adulti, nelle camere di sicurezza delle forze dell’ordine, nei centri di rimpatrio per migranti, nelle navi trasformate in luoghi improvvisati di privazione informale della libertà, nelle case per disabili e anziani. Un monitoraggio istituzionale e indipendente non neutro, perché non esiste neutralità quando si tratta di promuovere e proteggere la dignità umana.
«Oggi e dentro», secondo Mauro Palma, è la forma semplificata di governo del complesso sistema penitenziario. È ritenuto troppo poco conveniente dal punto di vista politico investire «sul domani e sul fuori».
I reati calano, il numero di detenuti che entra in carcere dallo stato di libertà cala, ma cresce il sovraffollamento. Come può accadere? Accade perché una volta che i detenuti sono entrati in carcere, sempre più si “butta la chiave”, in quanto i giudici non si fidano delle misure alternative alla detenzione.
Il sovraffollamento non è una fake news. Al momento ci sono nelle carceri italiane circa 60 mila persone, 10 mila in più rispetto alla capienza regolamentare totale, 3 mila in più rispetto a un anno addietro. Il sovraffollamento carcerario, che il presidente della Camera Roberto Fico, senza troppi giri di parole, ha definito una «pena aggiuntiva» è esito di questa cultura dell’oggi e del dentro. Il sovraffollamento produce sofferenza, riduce l’area dei diritti esigibili, accresce la fatica e la frustrazione degli operatori penitenziari, degrada le persone in numeri.
È QUESTA UNA delle possibili spiegazioni dei sessantaquattro suicidi del 2018, ben ventiquattro in più rispetto al 2016. Ogni suicidio deve interrogarci intorno al modello di pena prescelto. Una diversa, più aperta e articolata vita all’interno delle carceri favorirebbe un allentamento dei pensieri di morte e di violenza.
La relazione del Garante ha cancellato un’altra ricorrente fake news, ossia che in quelle carceri dove si sperimenta una maggiore libertà di movimento (la cosiddetta sorveglianza dinamica) sarebbero aumentate le aggressioni al personale. Falso. La maggior parte delle aggressioni avviene nelle sezioni ordinarie e non in quelle aperte. Le parole chiave devono essere in un carcere normalità e responsabilità.
NON È INVECE una falsa notizia l’abuso dell’isolamento disciplinare nei confronti dei detenuti, pratica che dovrebbe essere usata con grandissima parsimonia, visti i rischi sull’integrità psico-fisica di chi vi è sottoposto. Nel solo 2018 sono state inflitte invece ben 8.577 sanzioni di isolamento. Un’enormità, praticamente il doppio rispetto al 2016. È questo segno di una gestione del carcere fondata sul meccanismo punitivo.
È INFINE una fake news affermare che l’allungamento della detenzione amministrativa dei migranti serva a favorire l’identificazione e dunque il rimpatrio. Delle poco più di quattromila persone transitate nei Centri, nel corso del 2018, meno della metà è stata effettivamente rimpatriata. Il numero totale delle persone rimpatriate con la forza nel 2018 è stato pari a 6.398. Non si investe viceversa nei ben più efficaci rimpatri volontari. Ma questi ultimi richiedono pazienza, fatica, complessità che, come abbiamo visto, sono parole estranee alla cultura truce di chi ci vede tutti come followers ed elettori, e non come persone.
da manifesto