Caso Cucchi, il Dap non salva nessuno: «Morte inumana»
- dicembre 07, 2009
- in carcere, vittime della fini-giovanardi
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Non si capisce proprio cosa ci trovi di «importante e confortante», nella relazione finale del Dap sul caso Cucchi, uno dei sindacati della polizia penitenziaria. Gli ispettori del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria scrivono chiaro che Stefano Cucchi «ha concluso la sua vita in modo inumano e degradante». Nel documento, anticipato ieri dal Corriere della sera si legge che la catena di eventi che tra l’arresto (avvenuto la sera del 15 ottobre) e la morte (all’alba del 22, immobilizzato nel letto del reparto penitenziario del Pertini, cateterizzato e con addosso lo stesso cambio di sei giorni prima) s’è verificata l’«incredibile, continuativa mancata risposta alla effettiva tutela dei diritti in tutte le tappe che hanno visto Cucchi imbattersi nei vari servizi di diversi organi pubblici». Mancanze non coordinate tra loro ma che non assolvono nessuno. Tantomeno le guardie carcerarie. Le possibili colpe di altri organi non attenuano «la responsabilità di quanti, appartendendo all’amministrazione penitenziaria, abbiano partecipato con azioni e omissioni alla catena della mancata assistenza ». La relazione è stata trasmessa ai pm ai quali non sarebbe ancora arrivato il foglio, sbandierato da Alfano al Senato e da Panorama sul web, in cui Cucchi dichiarava di non voler che fossero fornite informazioni sulla sua salute ai familiari. Chi ha compilato quel documento, che spuntò diversi giorni dopo la morte, e perché non è ancora arrivato in procura? Giova ricordare che sul diario infermieristico, agli atti, è scritto che Cucchi rifiutava cibo, acqua e cure perché non gli veniva consentito un colloquio con un difensore di fiducia. Non si capisce proprio come si possano sentire sollevati i sindacati di categoria quando l’inchiesta interna ha appurato anche che il personale neppure conosce le circolari sul trattamento dei nuovi giunti, che nel posto di polizia penitenziaria della Città giudiziaria non c’erano il registro con i nomi e i movimenti dei detenuti. Scaturisce il quadro di un corpo di polizia negligente al punto da non segnalare neppure le condizioni degradate degli spazi destinati ai prigionieri nei sotterranei del tribunale: vomito sui muri, sporcizia in terra, mancanza di luce, aria e servizi igienici. Sul pestaggio, lungi dall’assolvere gli agenti, gli ispettori del Dap si rimettono alle conclusioni dell’autorità giudiziaria. Lo stesso capo del Dap, Franco Ionta, ha specificato che l’indagine, per quanto articolata, è «parziale». «Perché noi non siamo l’autorità giudiziaria». e ce n’è anche per il “repartino”, così è chiamato il padiglione penitenziario dove Cucchi avrebbe aspettato la morte. Le regole ospedaliere, ha accertato il Dap, hanno peggiorato i «residui spazi che risultano assolutamente garantiti nella dimensione penitenziaria». Non ci sarebbero state né collaborazione tra medici e polizia penitenziaria, né l’osservanza di prescrizioni «volte all’accoglienza e all’interpretazione del disagio del detenuto tossicodipendente ».Interessanti le testimonianze raccolte dall’inchiesta. A partire da quella fornita dall’operatore del 118 che vide Cucchi la notte dell’arresto nella camera di sicurezza «senza luce» della caserma dei carabinieri di Tor Sapienza. Chiamato per una crsi epilettica, l’equipaggio del 118 troverà Cucchi avvolto tra le coperte, immobile, poggiato su un fianco, con gli occhi appena visibili sotto le coperte. Una costante di questa storia: quel viso invisibile di cui parleranno i medici e anche la volontaria che lo incontrò la sera prima che morisse. A lei fu chiesto di avvisare il cognato di Stefano. La sua famiglia, per quattro giorni, ha chiesto invano ai cancelli del repartino, di sapere notizie del trentunenne che, a sua volta, cercava un contatto con l’esterno. Fin da quando, al Fatebenefratelli, dopo l’udienza di convalida, aveva chiesto di «parlare urgentemente» il suo avvocato a uno degli agenti di custodia. Era arrivato già gonfio in tribunale, pare che se ne sia accorto solo il padre. Era sconvolto dal fatto che i carabinieri non avessero avvisato il legale da lui indicato al momento dell’arresto. Si vide negare i domiciliari con la motivazione strana di non avere fissa dimora. Avrebbe firmato, stranamente, per rifiutare il ricovero e tornare in carcere a mezzanotte del 16 ottobre. E ci sono alcuni detenuti che avrebbero visto degli agenti di custodia trascinarlo in cella sottoterra a Piazzale Clodio. Altri detenuti e alcuni agenti che riferiscono le sue confidenze circa le botte subite dai carabinieri. Al di là dell’inchiesta emerge con forza l’esigenza di strumenti di garanzia per la popolazione detenuta o in stato di fermo. Un senatore Idv, Stefano Pedica, piuttosto attivo in questa vicenda (ieri, è stato dal pm a consegnare la drammatica lettera di un detenuto tunisino a cui Cucchi avrebbe confidato di essere stato ammazzato di botte dai carabinieri), annuncia un disegno di legge per installare telecamere nelle celle dei tribunali, nei commissariati e nelle caserme. Il video dovrebbe essere conservato fino alla fine del processo. E dovrebbero essere scattate foto prima e dopo l’ingresso in luoghi pericolosi come tribunali e caserme. Una proposta passata inosservata e che potrebbe fare la fine dell’idea di assegnare un codice sulla giubba di operatori travisati in servizio di ordine pubblico. Ma è una battaglia che dovrebbe essere condotta da quello che una volta chiamavamo movimento.
fonte: Liberazione
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