Caso Scattone: il trionfo del “populismo penale” e la morte del garantismo
- settembre 11, 2015
- in emergenza, riflessioni
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In questi giorni è scoppiata la polemica a riguardo la cattedra assegnata a Giovanni Scattone, accusato e condannato per la morte di Marta Russo. Scattone – precario a 50 anni suonati – che ha scontato per intera la pena, nonostante avesse i titoli e la piena riabilitazione da parte della Cassazione, ha rinunciato alla stabilizzazione a cui aveva diritto per via delle assurde e pretestuose polemiche forcaiole, giustizionaliste e manettare. «Se la coscienza mi dice di poter insegnare, la mancanza di serenità mi induce a rinunciare all’incarico». Sono queste le dichiarazioni rilasciate da Scattone nel rinunciare alla cattedra.
Pubblichiamo gli articoli di l’Internazionale, di Angela Azzaro da il Garantista e dell’avv. Giovanni Di Lembo che meritano una attenta lettura e che entrano nel merito sulla vergognosa gogna mediatica e voglia di giustizionalismo che attraversa larghi strati della società
da
In Italia il garantismo è sempre più a rischio
Giovanni Scattone era stato condannato per l’omicidio di Marta Russo, ormai quasi una ventina d’anni fa, in un processo iperamplificato dai mezzi d’informazione e farraginoso. Ha scontato cinque anni per omicidio preterintenzionale, è uscito di galera, e si è fatto anche un decennio di precariato nella scuola, poi quest’anno aveva avuto una cattedra di ruolo in un liceo romano.
Oggi la sua rinuncia al posto di lavoro dopo la campagna accusatoria montata dal Corriere della Sera e ripresa da vari giornali – secondo la quale era una vergogna avergli assegnato una cattedra statale – conclude nel modo peggiore una delle settimane più brutte della storia recente italiana per quello che riguarda i temi della giustizia; certificando, se mai ce ne fosse bisogno, il dilagare di quello che un bel libro recente di Stefano Anastasia, Manuel Anselmi e Daniela Falcinelli ha definito Populismo penale – un giustizialismo tanto vigoroso da essere una mentalità politica.
La settimana era cominciata con la pubblicazione delle cinquantadue pagine della corte di cassazione che chiarivano le ragioni dell’annullamento della sentenza sull’omicidio di Meredith Kercher: c’era scritto che il processo aveva avuto “un iter obiettivamente ondivago, le cui oscillazioni sono, però, la risultante anche di clamorose defaillance o ‘amnesie’ investigative e di colpevoli omissioni di attività di indagine”.
Tra le motivazioni di questo fallimento eclatante (che ha compreso dibattimenti estenuanti, anni di carcere per gli imputati tra cui molta custodia cautelare) sempre la corte ha scritto:
L’inusitato clamore mediatico del delitto Kercher e i riflessi internazionali della stessa vicenda, non hanno certamente giovato alla ricerca della verità provocando un’improvvisa accelerazione delle indagini nella spasmodica ricerca di colpevoli da consegnare all’opinione pubblica internazionale.
E poi ha rilevato un altro elemento interessante, quando dice che
se le indagini non avessero risentito di tali colpevoli omissioni, si sarebbe con ogni probabilità, consentito, sin da subito, di delineare un quadro, se non di certezza, quantomeno di affidabilità, nella prospettiva vuoi della colpevolezza vuoi dell’estraneità di Knox e Sollecito.
La sentenza sul processo di Perugia e il linciaggio mediatico di Scattone mostrano che se c’è una cultura diffusa, vincente, condivisa è quella di un giustizialismo vendicativo, bilioso, regressivo con tratti fascistoidi che ha largo spazio anche nei media che si proclamano progressisti, laici, fanatici della costituzione.
Quell’impronta garantista che i padri costituenti avrebbero voluto far diventare parte della cultura sociale del paese di Cesare Beccaria oggi è un alone fantasmatico, evanescente. Più che di giustizia e di avversari politici l’opinione pubblica ha bisogno di colpevoli morali che svolgano in modo efficace la funzione di capri espiatori.
Topi elettrizzati
Era già successo qualche mese fa, per esempio, con la nomina di Adriano Sofri nella consulta sulle carceri voluta dal ministro Orlando: massacrato dai giornali, anche quella volta Sofri aveva alla fine rinunciato.
Se prendiamo il caso simile di Giovanni Scattone, ci rendiamo conto che per moltissime persone il diritto penale non è sufficiente ma occorre una specie di surplus di giudizio, che Anastasia e gli altri definiscono diritto penale emozionale, in cui i diritti della vittima sono potenzialmente infiniti (l’abuso del paradigma vittimario di cui hanno scritto molti: per una buona sintesi, Daniele Giglioli, Critica della vittima).
In uno stato di diritto scambiato per un tribunale teologico giacobino, non ci sarà mai risarcimento, e quindi si può continuare a esercitare la richiesta di vendetta anche oltre la sentenza definitiva, e il normale oblio; mentre i diritti del condannato – per esempio il suo diritto al reinserimento, al riscatto, o i semplici diritti civili – sono annullati.
Quando per vent’anni si è paventato il rischio di una diseducazione giuridica di massa dovuta alla spettacolarizzazione dei processi, quando si faceva notare la nociva inutilità di contrastare il berlusconismo giocando tutto sul piano giudiziario, forse si doveva già immaginare che il risultato sarebbe stato quello di veder allargarsi il contagio del populismo penale anche a reati non commessi da politici.
Oggi sembra che un processo non abbia valore se non comprende anche la riprovazione morale, la gogna, lo spettacolo (che obbrobrio sono i recital con la lettura delle intercettazioni fatta da attori!). E sembra che non ci sia conflitto politico, contrasto sociale che non sia d’altra parte fondato sullo stigma morale.
La comunità civile desiderata dai giustizialisti è uno stato d’allerta etico dove si è sempre pronti a reagire come topi elettrizzati allo scandalo di qualcuno da poter condannare all’istante, per sentirsi consolati di appartenere al novero dei giusti.
Giovanni Scattone è stato condannato e ha scontato la pena (compresa un’interdizione provvisoria dai pubblici uffici), Raffaele Sollecito e Amanda Knox sono stati assolti. Qualunque cosa si possa pensare delle loro idee, delle vicende giudiziarie e politiche che li hanno coinvolti, a loro va la solidarietà di chi crede in uno stato di diritto e in una cultura garantista.
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Scattone, il tribunale ha detto: 5 anni e 4 mesi. Il popolo ha detto: fine pena mai
Angela Azzaro giornalista de Il Garantista”
Da ieri possiamo dormire sonni meno tranquilli. In Italia la condanna non viene decisa da un tribunale, con tre gradi di giudizio, la valutazione delle prove, un’accusa e una difesa. Viene decisa dal popolo che dello Stato di diritto se ne frega. E così che Giovanni Scattone, dopo le polemiche per l’assegnazione di una cattedra, ha deciso di lasciare. Ha rinunciato al posto e – parole del suo avvocato -si trova ora in mezzo a una strada: “Se la coscienza – ha scritto all’Ansa – mi dice di poter insegnare, la mancanza di serenità mi induce a rinunciare all’incarico”.
Scattone è stato condannato a 5 anni e 4 mesi per l’omicidio colposo (aggravato) di Marta Russo, uccisa da un colpo di pistola nei giardini della Sapienza. Era il 1997. Con lui è stato condannato per favoreggiamento Salvatore Ferraro. Scattone si è sempre dichiarato innocente. Ma ha comunque pagato i suoi conti con la giustizia e ha poi cercato di rifarsi una vita. Come è normale. Come è giusto che sia. Come, soprattutto, recita la Costituzione all’articolo 27, quando indica nella pena non uno strumento di vendetta ma di rieducazione. Scattone c’ha creduto, ha vinto il concorso per avere una cattedra e grazie alle nuove assunzioni ha ottenuto il posto. Ma non aveva fatto i conti con qualcosa che la Costituzione non dice, che la civiltà dovrebbe ostacolare. Non ha fatto i conti con la vendetta, l’idea che se hai sbagliato non potrai mai e poi mai ritornare nel consesso umano e civile.
Scattone nella lettera in cui rinuncia alla cattedra ha scritto parole durissime. Ha detto che gli si vuole impedire una vita da cittadino normale e che quello che è accaduto non è degno di un Paese civile. La sua decisione di lasciare è di fatto una sconfitta per tutti noi, la sconfitta di chi davvero pensa che la società, la civiltà che abbiamo costruito, siano abbastanza forti da permettere a una persona, che ha sbagliato, di pagare il suo debito e di riprendere a vivere. Qui sta l’ipocrisia. Perché in realtà questa idea non vale più. Si applicano le norme, ma poi vince ormai la cultura della vendetta, dell’occhio per occhio, dente per dente. Se una persona ha sbagliato, è bollata a vita, è condannata a vita.
Il processo che ha condannato Scattone e Ferraro è stato uno dei primi basati principalmente su indizi e non su prove. E’ stato cioè uno dei primi grandi processi mediatici, dove ha contato più la pressione popolare che lo Stato di diritto. Da qui quella sentenza a metà, quei 5 anni e 4 mesi per omicidio colposo come se i giudici avessero, nel dubbio, deciso di infliggere il minimo indispensabile. Nel dubbio, si sa, si dovrebbe assolvere. Ma erano troppe le pressioni, troppa l’attenzione di giornali e tv per non dare loro in pasto un colpevole.
Comunque sia andata, la Cassazione nel 1997 ha deciso per una condanna definitiva a 5 anni e 4 mesi. La condanna è stata scontata. Il popolo urlante, però, dice che non basta. L’obiezione più diffusa è che così si manca di rispetto ai genitori di Marta Russo. Loro hanno perso una figlia, mentre Scattone può insegnare. Confutare questo discorso è centrale. Dirimente. Perché se ci affidiamo a questo ragionamento davvero possiamo chiudere i tribunali, stracciare il codice penale, dare fuoco alla Costituzione. La terzietà del giudice rispetto al dolore dei parenti della vittima o della vittima stessa è fondamentale per non ricadere nella vendetta, in una società che non ha fiducia nel cambiamento delle persone.
Non dando una seconda possibilità a Scattone è come se dicessimo che l’essere umano non cambia, che la rieducazione è una utopia, che l’unico modo che abbiamo per garantire il rispetto della vita è quello di vendicarci contro chi sbaglia.
Non dando una seconda possibilità a Scattone, non stiamo dando una possibilità a noi, alla società di cui facciamo parte per uscire dal clima di odio e di livore che si stanno affermando. Ecco perché sarebbe bello che Scattone, come auspicato anche dal suo avvocato , Giancarlo Viglione, cambiasse idea e non si facesse intimorire da chi oggi lo perseguita.
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Sciacalli!
Avv. Giovanni Di Lembo
È da parecchio che non scrivo di vicende, più o meno, riportabili alla mia professione.
Con lo schifo che ho visto in questi giorni, però, non ce la faccio a tacere.
Io penso che la vicenda di Giovanni Scattone sia oltremodo vergognosa per un paese che voglia, grosso modo, definirsi civile.
Certo, i due non erano simpatici. La loro tignosa perseveranza a proclamarsi innocenti era abbastanza irritante.
Vorrei ricordare che scontarono un bel po’ di custodia cautelare pur di non voler patteggiare una pena che ritenevano ingiusta.
Come tutti i processi “mediatici”, purtroppo, anche questo fu inquinato dalla spasmodica e morbosa attenzione dell’opinione pubblica, bramosa di sangue televisivo, pomeridiano e serale.
So benissimo che la Corte di Cassazione giudica del caso singolo, ma leggendo, oggi, le sue coraggiose motivazioni sul caso Knox – Sollecito, non posso fare a meno di essere soddisfatto per la circostanza che anche la Suprema Corte pensa quel che io penso da tanto tempo. Ma, soprattutto, alla luce di quella motivazione, ripenso a tanti casi “mediatici” tipo questo di Marta Russo o quello di Cogne (e tanti altri) ed ancora di più rabbrividisco nel ricordare lo sciacallaggio mediatico di cui furono (sono e saranno) -ahinoi- oggetto.
Scattone fu condannato per omicidio colposo (in sostanza, per non averlo fatto apposta) con motivazioni risibili. Non avendo trovato uno straccio di prova, di ipotesi di collegamenti tra imputati e vittima, si inventarono il movente del delitto perfetto.
Due si alzano al mattino e si dicono: “Ehi … sai che ho pensato ? Facciamo il delitto perfetto … andiamo in Facoltà spariamo a casaccio, uccidiamo qualcuno e vediamo se la facciamo franca …” … “Sì dai figo! Portiamo la pistola, la balestra o il raggio della morte? … O vogliamo sciogliere il cianuro in una tazzina di caffè a caso al bar?” … “vabbè dai poi si vede” …
D’altronde, di “delitto perfetto” avevano parlato anche durante un corso all’Università … Prova davvero schiacciante …
Uno che voglia commettere un delitto perfetto, ne parla prima pubblicamente … Un vero genio del crimine. Non c’è che dire!
Ma, forse, chissà!, volevano una conferma sperimentale delle loro tesi … Il metodo scientifico, si sa, vuole così.
Se fossi un professore di medicina legale starei molto attento a quello che dico a lezione!
Un processo ridicolo, una pistola mai trovata, perizie che si smentiscono tra loro. Una (unica e sola) testimone che, minacciata dagli inquirenti, dice di aver, forse, visto un oggetto scuro che uno passava all’altro: non so un ombrello, un libro, un vibratore … no … una pistola … perché ? perché così piace alla proverbiale casalinga di Voghera.
A seguito di un simile processo, Scattone viene condannato per omicidio colposo (come dicono i legulei, per negligenza, imperizia o imprudenza … quindi senza volontà), strana concondarza con un’ipotesi di “delitto perfetto”.
Ma, ad ogni modo, la sentenza è definitiva e va rispettata.
Solo che va rispettata nella sua interezza.
Scattone ha scontato la sua pena ed è anche stato riabilitato. Non vi sono provvedimenti interdittivi di alcun genere nei suoi confronti.
Oggi è un libero cittadino come me e come chiunque altro.
Un libero cittadino che cerca di LAVORARE ed a cui viene sostanzialmente impedito da un ennesimo, maleodorante cancan mediatico condito da dichiarazioni di dubbio gusto e di dubbia opportunità.
In uno stato di diritto, la pena non la decidono i familiari delle vittime.
Il Codice di Hammurabi non vige già da un po’.
Per favore, qualcuno lo faccia sapere agli sciacalli televisivi.