“Senza questa assurda prospettiva (che costituisce l’essenza della libertà), gli sarebbe impossibile raffigurarsi la vita. Ha il senso che, per quanto la cosa sia impossibile, pure è così, giacché -senza questa rappresentazione della libertà- non solo non intenderebbe la vita, ma non potrebbe vivere neanche per un istante. Non potrebbe vivere, infatti, perché tutte le aspirazioni degli uomini, tutti gli stimoli della vita, non sono che movimenti verso un accrescimento della libertà. Ricchezza-povertà, gloria-oscurità, potere-sottomissione, forza-debolezza, salute-malattia, cultura-ignoranza, lavoro-ozio, sazietà-fame, virtù-vizio: ecco altrettanti gradi, maggiori o minori, della libertà. Rappresentarsi un uomo che non abbia libertà non è possibile che al patto di rappresentarselo privo di vita[1]”
- 1. La “carcerazione preventiva”: un’essenziale premessa terminologica
Fermare con durevoli tratti la scienza criminale potrebbe ri(con)durre –de relato(?)- la nostra indagine ad una summa della vita umana -o, rectius, di ciò che ci appare d’essa- aggrappata, press’a poco- ai due concetti, reciprocamente delimitantesi nell’unità, di libertà e necessità. Celebri, in tal guisa, le riflessioni di Tolstòj, secondo il quale “la ragione esprime le leggi della necessità [e] la coscienza esprime l’essenza della libertà. La libertà, senz’alcuna limitazione, è l’essenza della vita secondo la immediata coscienza dell’uomo. La necessità, priva di contenuto, è la ragione dell’uomo nelle sue tre categorie fondamentali. La libertà è [dunque] l’oggetto dell’osservazione; la necessità è ciò che compie l’osservazione. La libertà è il contenuto; la necessità è [quindi] la forma[2]”. La paradossale -ma non troppo- secrezione contestuale di tali concetti potrebbe rimandare la mente ad una brillante intuizione del Manassero che non sembrò esitare nell’affermare che “il concetto vario e vago della libertà è contingente ai popoli e ai tempi[3]”. Sembra difficile, d’altronde, negare che la definizione di libertà d’un celebre giureconsulto romano appaia, oggi, assai. -anzi, troppo- lungi dal maturato sentire: “libertas est naturalis facultas eius quod cuique facere libet, nisi si quid iure aut vi prohibetur[4]”.
Fu, forse, anche per questo che “la virtuosità delle definizioni sulla libertà adottate non solo nei trattati, ma pur anche nelle costituzioni francesi e nella carta costituzionale finì poi per cessare: sarebbe [verrebbe, inoltre, da aggiungere] strano che il codice civile e il contratto dessero una definizione dell’amore[5]”. La nostra carta costituzionale non pare sfuggire, d’altronde, alla tendenza summenzionata: non una definizione ma, casomai, la semplice e solenne affermazione del principio secondo il quale “la libertà personale è inviolabile[6]” traduce e scolpisce nella Carta un principio acutamente ritenuto “coessenziale alla Costituzione[7]”. La tautologia della(e) libertà sembra compendiarsi, d’altronde, in un prosaico dittico: “altro è la libertà, o meglio le libertà, altro sono i diritti di libertà. Questi sono come i confini, il baluardo, la protezione di quella[8]”.
I confini della libertà sembrano, peraltro, trasformarsi in truci orizzonti nell’epoca contemporanea: l’era del castigo. Si potrebbe dire, in tal senso, che “in linea di principio, di fronte ai disordini vissuti da una società, alla violazione delle sue norme e all’infrazione delle sue leggi, i suoi membri si affidano a una risposta fatta di sanzioni che alla maggior parte degli individui appaiono utili e necessarie[9]”. L’equazione social-securitaria sembra, dunque, urlare che “il crimine è il problema e il castigo la sua soluzione[10]”.
Ciononostante, come non ha – peraltro- mancato di notare il Fassin, con il momento punitivo è il castigo a divenire il problema: “lo diventa a causa del numero di persone rinchiuse o poste sotto sorveglianza, dello scotto pagato dalle loro famiglie e comunità, del costo economico e umano che ciò determina per la collettività, della produzione e riproduzione di disuguaglianze che favorisce, della crescita della criminalità e dell’insicurezza che genera e, infine, della perdita di legittimità derivante dalla sua applicazione discriminatoria e arbitraria. Ritenuto ciò che dovrebbe proteggere la società dal crimine, il castigo appare sempre di più ciò che invece la minaccia[11]”. La soluzione, si potrebbe dire, con “il momento punitivo” si trasforma nel problema.
Mi sia consentita, seppur in ritardo, una piccolissima chiosa introduttiva: il paradosso della penologia, forse, deve estendersi anche alle c.d. “carcerazioni preventive in attesa del processo[12]”. Allorquando, con un velato determinismo, ci si interroghi, infatti, sull’esistenza “scientifica” della materia penale si giunge, insieme al Lanza, a proposizioni di questo tipo: “la penalità, come fatto, ci appare presso tutti i popoli storici[13]”. L’esasperazione dell’ignuda constatazione fenomenica, d’altronde, potrebbe indurci a ritenere esistente un “nesso” tra il reato e la pena, poiché “nel flusso storico dell’attuazione reale della penalità questi due elementi s[ono] siffattamente ligati tra loro, da chiudere in sé stessi i caratteri propri ai due termini di una catena causale e cioè l’uno ci appare come un fattore antecedente (il reato); l’altro come fattore conseguente (la pena)[14]”. Siamo, dunque, al cospetto d’un “nesso di antecedenza e di successione, vale a dire una legge che li liga[15]”? Sulla base di tale argomentare si è acutamente osservato che esisterebbe un’elementare legge della scienza penale, tendente nelle forme al canone dell’equazione: “il reato suscita una reazione[16]”. In tale reazione, a modestissimo parere di chi scrive, non può non comprendersi la carcerazione preventiva.
Non è sconosciuta, d’altronde, la circostanza secondo la quale “l’evoluzione giuridica si rivela progressiva ogni qualvolta cresce e si fa effettiva la corrispondenza della norma regolatrice dei rapporti con ciò che impongono le condizioni della vita, vale a dire con ciò che esige la natura stessa delle cose[17]”. Si può, quindi, escludere dall’accezione di “penalità” -nell’epoca “securitaria” contemporanea- la carcerazione preventiva? Forse, verrebbe da dire, no.
Mi sia concessa, in tal senso, una breve notazione. Il Marucci, con parole che sembrano stroncarsi nelle fredde pareti delle carceri contemporanee, scriveva agli inizi del novecento: “oggi si ammette concordemente da tutti – classici e positivisti – che il carcere, almeno così com’è ora costituito – sia una scuola di disfacimento fisico e morale: di guisa che il delinquente, che dovrebbe andare per redimersi – come si dice – o si dissolve in tutta la sua umana compagine, o si raffina nel delitto, apparecchiandosi a dar nuovo filo da torcere alla giustizia e alla società[18]”. Non furono – e non sembrano essere – unicamente le parole di Dottrinari più o meno “garantisti” i pennelli con i quali si dipinsero quadri atroci e drammatici della pena detentiva. Si pensi, ad esempio, ad un articolo di Misasi, apparso ne “Il Mattino” del 1901, nel quale – a proposito del carcere di Nisida – si leggeva: “un bel pezzo descrittivo mi offrirebbe l’interno di quel penitenziario, che or fan venti anni rappresentava quanto l’architettura aveva immaginato di più comme il faut per la dimora e la custodia di cotesti poveri omicidi, ladri, grassatori, falsari, violatori di donne, che la società ivi rinchiude, onde chi è ancora alle scuole elementari del delitto, mercè la compagnia diurna e notturna dei maestri, ne esca addottorato, e vi ritorni, greve la fronte di gloriosi allori…E in verità i penitenziari non sono che una scuola della delinquenza per i novellini, un onorato riposo per i veterani del delitto…Chi bada con tanta meticolosità se il pane che noi mangiamo sia ben cotto, se le minestre ben condite, se il letto bene sprimacciato, se la biancheria ben monda? Chi ci costringe al bagno sia d’inverno che di estate, come si costringono quei contadini, quegli operai, che prima di essere delinquenti, vivevano nell’annosa sozzura?[19]”. Sembrerebbe di potersi intravedere, dunque, nella recidiva un “imperfezione della legge[20]”: poiché quelli non si “possono chiamare delitti né semi-delitti; ma delitti […] piuttosto giuridici che reali, perché sono creati più dalle imperfezioni della legge che da quelle degli uomini[21]”. Una battuta lapalissiana potrebbe essere questa: “E se lo diceva il Lombroso – che di imperfezioni degli uomini – se ne intendeva (giusto un pochino!)…”. I soggetti sottoposti a carcerazione preventiva, benché non siano formalmente detenuti, sono -nei fatti- “l’altra metà” di questo lugubre cielo: ne respirano, infatti, l’esiziale aria condividendo con i condannati, in una sorta di infausta eterogenesi dei fini, l’immediato destino (di doman non v’è certezza).
Non è un caso, mi si consenta, che l’art. 13 comma V della Carta Costituzionale parli di “carcerazione preventiva”: come ha acutamente notato il Serraino è, quindi, di questa che si deve parlare “schiettamente e senza imbellettamenti”. Si potrebbe, infatti, ritenere che “custodia cautelare [sia] denominazione artefatta, giacché si rivolge ad un istituto indolore, e quindi, alla luce dei meri, nudi fatti, attualmente inesistente. Custodia cautelare è [casomai] denominazione evocativa di un concetto che, seppur necessario per l’inquadramento del fatto relativo, non può essere elevato a unico oggetto della dommatica; pena suscitare insoddisfazione in chi colga, alla sola percezione oculare, lo scarto abissale che qui separa concetto e fatto[22]”. Si rimandi, per un momento, la mente anche a Goffman ed alla definizione che ci consegnò dell’“istituzione totale”, ossia “il luogo di residenza e di lavoro di gruppi di persone che – tagliate fuori dalla società per un considerevole periodo di tempo – si trovano a dividere una situazione comune, trascorrendo parte della loro vita in un regime chiuso e formalmente amministrato[23]”: apparentemente facile concludere che all’interno di tale concetto debba, per forza di cose, confluire anche la carcerazione preventiva. Si comprende, dunque, perché autorevolissima dottrina sostenga che “qualunque disciplina voglia schivare un uso arbitrario di strumenti processuali invasivi della libertà personale dell’imputato, sia sul piano interno sia su quello transnazionale, non può che muovere dalla presunzione di libertà posta alla base della presunzione d’innocenza, che costituisce ancor oggi la bussola più efficace per orientare un’indagine che possa dirsi fair nell’uso di strumenti di coercizione[24]”.
La carcerazione preventiva, oltretutto, sembra ammantarsi, del tutto paradossalmente, più del tratto “punitivo”, in spregio a quello “custodiale”, maggiormente nel sistema penale attuale – dichiaratamente accusatorio – piuttosto che nel lontano(?) impianto inquisitorio poiché, in quest’ultimo, sembrava assurgere alla dignità di “mezzo istruttorio”. L’affare inquisitorio, infatti, “quale arte psico-compulsiva intesa al discorso confessorio […] esige[va?] lunghe clausure dove i pazienti, macerati dall’attesa, diventino comodamente manipolabili: espediente istruttorio, tale custodia è un ferro del mestiere; in ambiente normale l’inquisito non confesserebbe[25]”.
Daniel Monni
Detenuto in attesa di giudizio
Cos’è la custodia cautelare in carcere. La custodia cautelare in carcere (o carcerazione preventiva) è una misura cautelare personale coercitiva. Essa consiste nella privazione della libertà dell’imputato prima della sentenza di condanna. Di norma questa restrizione dovrebbe essere di natura eccezionale invece in Italia viene praticata nella maggioranza dei casi.
Non so quanti hanno visto il bellissimo film dal titolo, appunto, “Detenuto in attesa di giudizio” ben interpretato da Alberto Sordi in uno dei suoi pochi ruoli drammatici: un geometra emigrato in Svezia torna in Italia per trascorrervi le vacanze. Alla frontiera l’uomo è arrestato e condotto a San Vittore. Dopo interrogatori e trasferimenti in altre carceri, il poveraccio capisce di essere accusato di un omicidio che non ha mai commesso. Subisce un lunghissimo calvario giudiziario, costellato di trattamenti umilianti e degradanti.
Chiarita oramai la sua posizione, il povero geometra riacquista la libertà, ma è un uomo ormai fortemente segnato, fisicamente e psicologicamente. Nei miei 35 anni di carcere ho visto tante persone entrare in carcere, scontare una lunga pena per poi al processo essere assolti. Si è vero, quasi tutti i prigionieri si dichiarano innocenti (è un loro diritto), ma molto spesso alcuni lo sono, anche per questo la carcerazione preventiva andrebbe applicata solo in rari casi. Non posso fare a meno di pensare che il carcere produce criminalità.
E questo probabilmente perché quando vivi intorno al male, non puoi che farne parte. E in parte questo vale anche per le guardie carcerarie, che non sono nate “cattive”, ma a volte lo diventano a furia di vivere in un ambiente di “cattività”. Penso che spesso non siano i reati commessi a far diventare una persona criminale, bensì i luoghi in cui è detenuto anche per questo penso che la custodia cautelare in carcere dovrebbe essere applicata solo in casi eccezionali. Mi ricordo che più che trascorrere le mie giornate le vedevo passare perché il tempo in carcere è difficile da percepire. Il tempo lo si estende e lo si altera.
A volte per tentare di vivere devi saper morire. Ed io iniziavo a morire appena mi svegliavo al mattino. Normalmente mi svegliavo all’alba. Non mi alzavo subito. Stavo un po’ abbracciato con il mio cuore. A volte andavo all’aria a fare quattro passi. Spesso invece rimanevo in cella. La sera iniziavo a fare su e giù per la cella. Avanti e indietro. Tre passi avanti e tre indietro. Quando ero abbastanza stanco, mi sdraiavo sulla branda con la speranza di addormentarmi perché non potevo fare altro. Io però avevo una condanna definitiva invece molti detenuti in attesa di giudizio spesso sono solo colpevoli di essere innocenti e quando ad alcuno di loro gli verrà riconosciuta la loro innocenza sarà troppo tardi.
Carmelo Musumeci
note:
[1] TOLSTÒJ L.N., Guerra e Pace, Milano, 2011, pagina 1302
[2] TOLSTÒJ L.N., op.cit., pagina 1310
[3] MANASSERO A., La libertà personale dell’imputato, Milano, 1925, pagina 1
[4] FIORENTINO, Dig. I, V, 4, riprodotta, tra l’altro, dall’art 4 della Dichiarazione dei Diritti dell’uomo del 26 agosto 1789
[5] MANASSERO A., op.cit., pagina 2
[6] Art. 13 Cost.
[7] GALEOTTI S., La libertà personale: studio di diritto costituzionale italiano e comparato, Milano, 1953, pagina 31
[8] Ibidem. Si veda, inoltre, PRESUTTI E., Diritto Costituzionale, Napoli, 1915, pagina 199
[9] FASSIN D., Punire: una passione contemporanea, Milano, 2018, pagina 12
[10] Ibidem
[11] Ibidem
[12] FASSIN D., op.cit., pagina 9
[13] LANZA V., L’umanesimo nel diritto penale, Palermo, 1906, pagina 4
[14] LANZA V., op.cit., pagina 5
[15] Ibidem
[16] LANZA V., op.cit., pagina 7
[17] VANNI I., Gli studi di H. Sumner Maine e le dottrine della filosofia del diritto, Verona, 1892, pagina 2
[18] MARUCCI A., La nuova filosofia del diritto criminale, Roma, 1904, pagina 174
[19] MISASI N., ne Il Mattino, 23-24 ottobre 1901
[20] Come la definì LOMBROSO C., L’uomo delinquente, Torino, 1897, pagina 530
[21] Ibidem
[22] SERRAINO M., Tutela cautelare e salvaguardia dei diritti della persona, in AA.VV., Libertà dal carcere. Libertà nel carcere. Affermazione e tradimento della legalità nella restrizione della libertà personale, Torino, 2013, pagina 199
[23] GOFFMAN E., Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza, Torino, 1961, pagina I
[24] RUGGERI S., Tutela cautelare e salvaguardia dei diritti della persona, profili comparatistici e garanzie sovranazionali in Europa in AA.VV, op.cit., pagina 198
[25] CORDERO F., Procedura Penale, Milano, 2012, pagina 465