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Controinchiesta sulla tragedia della Truck Center di Molfetta, oltre l’ignobile sentenza.

Un approfondimento sulla vicenda giudiziaria che ha fatto seguito alla morte di cinque operai della Truck center, a cura del Comitato 3 marzo di Molfetta.
Poche cose come la vicenda Truck Center possono dare una immagine realistica dell’abisso morale in cui è caduto il cosiddetto Belpaese. L’ultima sentenza, ribaltando in appello quella di primo grado, ha assolto o prosciolto per prescrizione tutti gli imputati, con l’unica eccezione della Truck Center medesima, il cui unico socio accomandatario e rappresentante legale è una delle cinque persone [tutti lavoratori della ditta NdR] decedute per intossicazione da acido solfidrico nella tragedia del 3 marzo 2008. Insomma, come in un giallo di quart’ordine, a tutt’oggi, si potrebbe in sostanza dire che l’unico colpevole sarebbe il morto. Ammesso che non è possibile negare le responsabilità della Truck Center e del suo amministratore per le omissioni delle misure di sicurezza, il cui rispetto avrebbe comunque evitato l’esito letale, va rimarcato il fatto che alcuni degli imputati sono stati prosciolti per prescrizione. In altri termini, la Corte d’Appello li ha giudicati colpevoli, altrimenti sarebbe stata tenuta ad assolverli, e gli imputati hanno evitato la condanna solo per il decorso del tempo, ossia per il fatto che si sono lasciati trascorrere più di nove anni dal tragico evento.
Di queste lungaggini è praticamente escluso che qualcuno possa essere chiamato a rispondere. Va soprattutto rammentato che tra gli imputati di questo ramo del processo non era compresa l’Eni Spa, oggetto di un procedimento parallelo. La suddivisione del processo in più tronconi ha nei fatti agevolato la difesa dei diversi imputati e favorito l’esito fin qui sconvolgente ed inaccettabile fino al grottesco della vicenda processuale. Particolarmente grave è che tutto ciò abbia nei fatti consentito di non considerare minimamente la configurabilità della fattispecie del dolo indiretto o eventuale, oltre che della complicità e della associazione per delinquere, nei rapporti fra Eni Spa e Nuova Solmine Spa, rispettivamente mittente e destinataria del carico di zolfo fuso con annesso acido solfidrico in quantità letale. Eppure non mancavano pesanti e concordanti elementi a sostegno di una tale configurabilità, essendo stata provata la totale consapevolezza delle due imprese circa la presenza di acido solfidrico in quantità abnorme nelle ferro-cisterne che trasportavano zolfo fuso, tanto che la Nuova Solmine aveva ottenuto uno sconto sul prezzo in considerazione di tale circostanza.
Nell’altro procedimento, il Gup del Tribunale di Trani, il 5 dicembre 2011, ha assolto l’Eni Spa e sette suoi dipendenti dall’accusa di omicidio colposo e lesioni colpose in relazione alla tragedia della Truck Center di Molfetta del 3 marzo 2008 “perché il fatto non sussiste”, con formula dubitativa, ossia ai sensi del 2° comma dell’art. 530 del Codice di procedura penale. In altri termini, gli imputati sono stati assolti non perché ne sia stata ritenuta provata l’innocenza, ma per la mancanza, insufficienza o contraddittorietà della prova della loro colpevolezza. Il giudice ha, cioè, ritenuto che sussistesse un dubbio insuperabile sulla prova, tale da imporre di mandare assolti gli imputati persone fisiche e, conseguentemente, dichiarare l’insussistenza dell’illecito amministrativo dipendente da reato, addebitato alla società. Il dubbio non ha riguardato il fatto che la ferro-cisterna contenesse acido solfidrico in quantità e concentrazione letali, che tale gas tossico abbia causato le morti e le lesioni del 3 marzo 2008, che ad immetterlo nella cisterna sia stata l’Eni, che le vittime fossero del tutto ignare del pericolo mortale che correvano introducendosi nella cisterna. Fuori di dubbio è, altresì, che l’Eni fosse perfettamente consapevole della presenza del gas letale in quantità abnorme, a causa del malfunzionamento dei propri impianti.
È stato inoltre accertato che la stessa società, rilevato il problema, aveva deliberato di eliminarlo e di effettuare gli investimenti a tal fine, ma ne aveva rinviato l’esecuzione, evitando di sostenerne i relativi costi. Altrettanto certamente consapevole della presenza abnorme di acido solfidrico nelle ferro-cisterne utilizzate per il trasporto di zolfo fuso era la Nuova Solmine Spa di Scarlino, destinataria del carico. Pure accertato è che, nel contratto di fornitura, le due società avevano omesso ogni riferimento alla presenza nelle cisterne di acido solfidrico, quale rifiuto tossico indesiderato derivante dalle operazioni di produzione e caricamento di zolfo fuso. Non, quindi, per caso o per errore, ma per preciso accordo tra le due parti contraenti, le ferro-cisterne non recavano le indicazioni della presenza dell’acido tossico e del pericolo mortale per inalazione del medesimo. Pure fuor di dubbio è che l’acido solfidrico, in quanto rifiuto speciale, doveva essere smaltito in osservanza delle norme vigenti secondo procedure di tutela della vita e dell’integrità dei lavoratori e dei cittadini e della sicurezza ambientale, con conseguente sopportazione del relativo onere economico.
A tale proposito, due circostanze rimarcate nelle motivazioni delle prime due sentenze relative al caso appaiono particolarmente significative nell’evidenziare la gravità delle responsabilità delle due imprese e dei loro soggetti agenti. Da un lato, è emersa, sulla base delle deposizioni dei periti tecnici incaricati dal Tribunale, l’inesistenza di utili sistemi di captazione e rimozione dell’acido solfidrico dalle cisterne, per cui inevitabilmente il gas letale in gran parte restava all’interno delle stesse. Per altro verso, gli stessi tecnici hanno sottolineato che anche nei limiti dei valori minimi, l’acido solfidrico che si libera dallo zolfo liquido quale reagente del medesimo può risultare mortale. In tutta evidenza, quindi, garantire condizioni di piena sicurezza nel trasporto dello zolfo fuso associato al rifiuto letale costituito dall’acido solfidrico avrebbe comportato un notevole maggior carico di costi. La corretta indicazione del contenuto tossico delle cisterne e del pericolo mortale da esso rappresentato avrebbe infatti imposto la bonifica accurata delle ferro-cisterne o la loro sostituzione, in quanto utilizzabili senza rischi per un solo trasporto, o altra soluzione comunque più onerosa rispetto alla pura e semplice omissione della segnalazione della presenza dell’acido letale.
In sostanza, l’Eni non ha effettuato gli investimenti necessari per la eliminazione del pericolo né nelle fasi della produzione e del caricamento, né in quelle del trasporto, dello scarico e della bonifica o sostituzione delle ferro-cisterne, in quanto avrebbero comportato un rilevante aumento dei costi ed una conseguente notevole riduzione dei livelli di profitto. Non si è, in particolare, preoccupata minimamente di seguire e controllare le operazioni di scarico e bonifica, al fine di garantire condizioni di sicurezza e rispetto dell’ambiente, nonostante fosse consapevole delle condizioni di pericolo da essa stessa determinata per la omessa segnalazione della presenza di acido solfidrico in quantità certamente abnorme e potenzialmente letale.
I fatti accertati sono tali da far ritenere quantomeno non manifestamente infondato che l’Eni, tramite i suoi soggetti agenti, abbia deciso consapevolmente, al fine di un maggior profitto, di accettare la concreta possibilità, intesa in termini di elevata probabilità, che si realizzasse un evento luttuoso, quale quello che si è effettivamente verificato. In altri termini, numerosi elementi consistenti e concordanti portano a ritenere che l’Eni, con le sue omissioni e violazioni di norme di legge, abbia accettato il rischio del verificarsi dell’evento, non voluto né desiderato nella rappresentazione psichica delle persone fisiche agenti, ma in concreto altamente probabile, alla luce delle conoscenze scientifiche e tecniche in loro possesso. Dato che i soggetti agenti, pur non avendo avuto di mira quel determinato accadimento, hanno tuttavia operato anche a costo che si realizzasse, esso deve considerarsi riferibile alla loro volontà e, come tale, configurabile come dolo indiretto o eventuale.
Tale fattispecie implica, infatti, che i soggetti agenti siano a conoscenza dell’esistenza certa del rischio e decidano di correrlo, pur sapendo, potendo e dovendo eliminarlo. Responsabilità strettamente analoghe sono da addebitarsi alla Nuova Solmine ed ai suoi dirigenti, perfettamente a conoscenza del pericolo rappresentato dalla presenza abnorme di acido solfidrico e delle violazioni ed omissioni finalizzate ad occultarla. Tra le due società sarebbe pertanto ravvisabile una vera e propria complicità o associazione per delinquere. In ogni caso, non si vede il motivo per cui le violazioni ed omissioni di Nuova Solmine debbano escludere quelle dell’Eni, come ha ritenuto il Gup, anziché sommarsi ad esse ed anzi aggravarle, in coerenza con gli elementi probatori emersi processualmente.
La sentenza di assoluzione dell’Eni non ha minimamente considerato la possibilità del dolo eventuale e quella della complicità tra le due società, neanche per escluderle, ma si è fondata su un dubbio relativo ad una ipotesi non verificatasi nella realtà. Il giudice ha infatti ritenuto che non potesse escludersi la possibilità, qualora la presenza dell’acido solfidrico fosse stata correttamente segnalata dall’Eni, che Nuova Solmine potesse comunque rimuovere le segnalazioni e riprodurre una situazione di pericolo. In pratica, il rispetto di leggi poste a tutela della vita e della salute dei lavoratori e dei cittadini viene assunto da un giudice non come un obbligo ma come una ipotesi, un optional, quasi una bazzecola. Parrebbe, invece, doversi affermare che le leggi esistono perché tutti, comprese le grandi imprese multinazionali con profitti miliardari ed a forte partecipazione statale, vi si debbano conformare. Trattare il rispetto delle leggi come una ipotesi di lavoro appare un espediente cavilloso e capzioso, un trucco o acrobazia logica da azzeccagarbugli, tutt’al più ammissibile per le parti processuali, ma alquanto incongruo per un giudice giudicante e per un caso di così elevata gravità.
Nel merito, non può esservi alcun dubbio che l’eventuale eliminazione da parte di Nuova Solmine delle segnalazioni della presenza di acido solfidrico, effettiva e non virtuale o supposta, avrebbe comportato una responsabilità incomparabilmente più grave della rimozione dei segnali di rischio di infiammabilità da una cisterna svuotata del carico infiammabile. In pratica, è accaduto che una omissione che ha causato la morte di cinque persone è stata di fatto posta sullo stesso piano di una violazione paragonabile per gravità ad una innocua contravvenzione. Non può esservi dubbio alcuno, invece, che la violazione di gran lunga più grave commessa da Nuova Solmine sia stata la omessa segnalazione della presenza dell’acido solfidrico e non la rimozione dei segnali del pericolo di infiammabilità di un ormai inesistente carico di zolfo fuso.
È stato infatti accertato, e non costituisce materia di dubbio o di opinione, che Nuova Solmine era pienamente consapevole della presenza nelle cisterne di acido solfidrico in quantità abnorme e che avrebbe dovuto segnalarla. Se non ha potuto né voluto evidenziarla, è stato a causa degli accordi contrattuali sottoscritti con l’Eni. Si è soliti affermare che le sentenze vanno rispettate, ossia che vi si deve ottemperare, ma ciò, tuttavia, non significa che si debbano anche condividere. E quelle in argomento appaiono francamente offensive, sia per la logica e l’intelligenza, sia per la memoria delle vittime, la democrazia e la dignità dei cittadini nel cui nome è esercitata la funzione giudiziaria. Il minimo che si possa dire è che finora il sistema giudiziario abbia manifestato una estrema benevolenza verso l’Eni, e un comportamento quasi di noncurante distrazione e superficialità nel considerare i numerosi elementi a carico di questa importante impresa.
In particolare, le motivazioni addotte nella sentenza del Gup per escludere le responsabilità dell’Eni e, di conseguenza, anche di Nuova Solmine nella tragedia appaiono assurde fino al ridicolo ed al caricaturale, tanto da potersi ritenere oggettivamente provocatorie e dileggianti nei confronti delle vittime, dei loro parenti e della intera comunità nazionale. Esse marcano nei fatti una distanza siderale fra le legittime aspirazioni di costoro alla verità ed alla giustizia e le regole, le prassi, i cavilli e i garbugli del processo penale, così come può svolgersi in Italia, in particolare quando a rispondere delle proprie responsabilità sono chiamati soggetti particolarmente ricchi e potenti. Queste pesanti prese in giro sono devastanti per la credibilità di tutte le istituzioni non solo giudiziarie ed anche degli organi di informazione e ne evidenziano il sostanziale distacco dalla realtà, su cui pure essi hanno il compito, o la pretesa, di intervenire, giudicare e informare.
La situazione appare a questo punto per molti versi pressoché irrimediabilmente compromessa, salvo che tramite ricorso in Cassazione non si riesca ad ottenere la riunificazione dei processi e la riconsiderazione delle imputazioni. Appare in particolare indispensabile che la suprema Corte si esprima circa la configurabilità nei confronti di Eni e Nuova Solmine dei reati di omicidio plurimo volontario, nel senso del dolo indiretto o eventuale, di concorso e complicità nel medesimo e di associazione per delinquere.
Qualora ciò non accadesse o la valutazione della Corte di Cassazione fosse negativa, il distacco fra istituzioni e realtà si renderebbe definitivo e irreversibile.
Comitato 3 marzo – Molfetta