Se fosse un film questa storia inizierebbe con le immagini di una manifestazione piccola piccola, a Ponte Galeria e finirebbe (per ora) con le foto pubblicate ieri da Liberazione. Località sperduta al di là della periferia ovest di Roma. Ponte Galeria è un luogo di case più o meno abusive a sfregiare la campagna, più in là l’aeroporto di Fiumicino. Ponte Galeria diventò famosa alla fine del secolo scorso quando, accanto alla decentratissima scuola della celere, spuntarono le gabbie del Cpt romano, luogo di feroce apartheid – nel comune sentire delle reti antirazziste – inventato da due ministri di allora, Turco Livia e Napolitano Giorgio.
Era il 15 gennaio 2000. Dieci anni prima era scoppiata la pantera nelle università di mezza Italia. Questo si dissero mesti due partecipanti alla minuscola manifestazione, reduci da quell’altro movimento. Intorno a loro c’erano poche decine di persone bloccate nel piazzale della stazione da uno spiegamento di forze in tenuta antisommossa che occupava fisicamente il budello di strada che portava alle gabbie per migranti che non avevano commesso reato alcuno. Quello di clandestinità sarebbe stato inventato dal successivo governo dai ministri Bossi Umberto e Fini Gianfranco.
Il film andrebbe avanti con la scena del tentativo di avanzata, dopo un nervoso fronteggiamento immobile, da parte dei manifestanti, dietro un salsiccione di gomma. Era l’uso del momento: mettere in gioco i corpi (con un po’ d’imbottitura) per provare a forzare la situazione, dimostrando risolutezza ma senza offendere altre persone, mettendo spalle al muro chi gestiva l’ordine pubblico, la violenza era solo da una parte. Infatti, al di là del salsiccione si scatenò una gragnuola di manganellate e lancio di armi improprie contro i manifestanti. Fu spaccata la testa a un ingegnere in pensione, pacifista incallito, incapace per carattere di mostrare i muscoli. Durò pochissimo e non ebbe conseguenza alcuna sul destino della battaglia antirazzista e non sarebbe nemmeno il caso di dedicare tanto spazio a questo ricordo se il capo della piazza non fosse un commissario di polizia che, una quindicina di anni prima, giovane capitano di pubblica sicurezza era finito sotto processo per aver denunciato che il suo, alla celere di Padova, era un «mestiere violento» e che esisteva un settore di polizia che non voleva «più mettere a ferro e fuoco le città, ma inserirci nella realtà che ci circonda». Fu messo alla sbarra per attività sediziosa. In sintesi aveva denunciato che la celere agiva con metodi da guerra sporca nella gestione dell’ordine pubblico, che gli agenti – incoraggiati dagli ufficiali – truccavano con sabbia e tondini di ferro manganelli ritenuti troppo morbidi, toglievano la calotta ai candelotti lacrimogeni così da aumentarne la capacità penetrante, compravano fionde e biglie per attaccare i manifestanti. Non basta, il giovane capitano rivelò che il Reparto è un campionario quasi completo di reati comuni: furto, ricettazione, rapine, sfruttamento della prostituzione. E molti dei poliziotti avevano simpatie e contatti col mondo dell’estrema destra. Fu così che si iniziò a parlare di “polizia democratica” che ambiva a essere sindacalizzata e a scrollarsi di dosso, assieme alle stellette, anche l’eredità di Scelba. I pasoliniani figli del popolo avevano preso coscienza, volevano essere cittadini e lavoratori come gli altri, servire la Costituzione e non essere il braccio armato del potere. Il 25 aprile del 1981, nonostante la pesantezza emergenziale dell’epoca, la pubblica sicurezza diventò polizia di stato e ogni agente potè aderire al sindacato.
Nemmeno venticinque anni dopo di quella stagione non sembrava essere restato niente. Il capitano, divenuto commissario, aveva guidato un’azione con gli stessi metodi di chi lo aveva sbattuto sotto processo. La polizia s’era rimilitarizzata ma il grande pubblico lo avrebbe scoperto solo un anno e mezzo dopo, comodamente seduto sulle poltrone di casa, mentre migliaia di robocop con i colori di ogni polizia disponibile inseguivano e violentavano, con ogni mezzo a disposizione, i trecentomila manifestanti accorsi contro il G8 di Genova (come qualche mese prima a Napoli). Dopo ventitre anni ci riscappa il morto.
Le pratiche denunciate dal capitano coraggioso erano tornate in auge maturando nella mutazione della società italiana, trovando linfa nella montante emergenza sicurezza inventata senza pezze d’appoggio statistiche, nel nuovo modello di difesa, nella creazione di un fronte interno della guerra globale, nella riforma dell’arma dei carabinieri, nella professionalizzazione dell’esercito, nell’erosione dei diritti del lavoro e della cittadinanza, nello smarrimento che quell’erosione ha indotto nei tessuti sociali, infine nella ristrutturazione dei servizi segreti coordinati da una sorta di Negroponte italiano.
Dieci anni dopo il catalogo di brutalità, abusi, omicidi e depistaggi commessi da personale delle forze dell’ordine è così vasto da impedire che la stampa e le procure si girino dall’altra parte. E questa scia di sangue ha oltrepassato i confini degli scenari di piazza, dei contesti di conflitto, per macchiare i luoghi del contatto quotidiano, informale, tra gli uomini con la divisa (e la pistola) e quelli senza entrambe. E’ una mutazione del ruolo delle polizie e della loro relazione col contesto – che poi è il rapporto coi cittadini e con la legalità. Di questo, anche, si parla quando si grida all’emergenza democratica nel Paese.
Di questo parla la vicenda legata all’omicidio di Federico Aldrovandi e al depistaggio delle indagini sui fatti. Il questore dell’epoca, come il capitano coraggioso, era stato tra coloro che, nei primi anni ’70, aveva preso parte alle riunioni clandestine del movimento per la sindacalizzazione della polizia.
Se fosse un film, dalla solitudine della famiglia Aldrovandi, si passerebbe con una semplice dissolvenza alla scena più affollata di una conferenza stampa della famiglia Cucchi. All’apparenza il caso ha una fortuna mediatica e politica migliore di quella del diciottenne ferrarese ma spesso i cronisti enfatizzano aspetti marginali della vicenda. Quasi nessuno avverte l’urgenza di indagare quella mutazione genetica, di individuare strumenti di formazione e di garanzia tali per cui non debba più accadere che qualcuno ci rimetta la salute e le penne e alla fine anche la dignità se qualche appartenente di questi corpi decide di “superare la linea blu”, come dicono negli Usa quando viene commesso qualche abuso nella gestione del servizio. Eppure, solo per fare alcuni esempi, sia le morti di Stefano Frapporti, Riccardo Rasman, Gabriele Sandri e la condanna del capo dei Ros o “solo” lo stupro appena denunciato da una donna transitata in una caserma dei carabinieri della periferia romana configurano un vero e proprio ribaltamento dell’emergenza sicurezza.
Il debate public è strabico e omertoso: si concentra sull’opportunità o meno che i funzionari colpevoli restino in servizio ma trascura di assumersi le proprie responsabilità sulla mancata istituzione di una vera inchiesta parlamentare (Violante e Di Pietro in testa) o sull’invenzione di strumenti di garanzia per tutti come il codice alfanumerico sulla divisa dei robocop che agiscono travisati in contesti di ordine pubblico. Nel frattempo, il sindacato unitario della polizia s’è sfaldato e i suoi frammenti non hanno mai voluto battersi per aprire una discussione con il resto della società. Anzi, in più di un’occasione, la galassia sindacale ha fatto quadrato attorno al Viminale anche quando gli abusi erano evidenti e danneggiavano i lavoratori stessi. L’Italia resta quello che Manlio Milani – sua moglie fu uccisa in piazza della Loggia – chiama «il paese dei comitati».
Checchino Antonini
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