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Così l’Europa legalizza la vendita di esseri umani: la direttiva rimpatri

Secondo la proposta di riforma (peggiorativa) dell’Unione Europea, potranno essere espulsi anche i minori non accompagnati. Non si prevedono i centri nei paesi terzi (come nel patto Italia-Albania), ma si apre la strada a uno scenario anche peggiore…

di Gianfranco Schiavone da l’Unità

“Un nuovo minimo per l’Europa”, così Eve Geddie, direttrice dell’Ufficio delle istituzioni europee di Amnesty International, si è espressa commentando a caldo la proposta di revisione della Direttiva rimpatri presentata l’11 marzo 2025 dalla Commissione Europea. Un giudizio tagliente ma per nulla eccessivo e che mi sento di condividere. La lettura della proposta del “Regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio che istituisce un sistema comune per il rimpatrio dei cittadini di paesi terzi il cui soggiorno nell’Unione è irregolare, e abroga la direttiva 2008/115/CE” (Strasburgo, 11.3.2025 COM(2025) 101) stordisce infatti per l’estremismo di molte delle proposte che vi sono contenute.

Mettendo a confronto il testo della vigente Direttiva 2008/115/CE (che, giova ricordarlo con amara ironia, venne definita a suo tempo, la “direttiva della vergogna”) con la proposta di nuovo Regolamento presentato dalla Commissione, si può subito notare come si preveda una generale compressione delle garanzie poste a salvaguardia dei diritti delle persone espulse, ed in particolare di quelle che sono trattenute al fine di eseguire l’espulsione. Nella proposta la decisione di rimpatrio “deve essere emessa per iscritto e deve essere motivata in fatto e in diritto, nonché fornire informazioni sui rimedi giuridici disponibili e sui termini per esperirli” (art. 7 par.2) ma la traduzione del provvedimento può avvenire anche oralmente (par 5).

Quando non è possibile determinare un paese di rimpatrio sulla base delle informazioni a disposizione al momento dell’emissione della decisione di rimpatrio si propone che la decisione stessa possa “indicare provvisoriamente uno o più paesi di rimpatrio” (par.4) come se si trattasse di una sorta di gioco con più opzioni. Mentre nella vigente Direttiva il rientro volontario costituisce (purtroppo spesso solo sulla carta e non nella realtà) la misura prioritaria da adottarsi nella generalità dei casi con le sole esclusioni della sussistenza di un rischio di fuga o nel caso lo straniero costituisca un pericolo per l’ordine pubblico, nella nuova proposta della Commissione, anche se viene meticolosamente dettagliata (art.21) la condotta a cui deve attenersi chi beneficia del rientro volontario, l’istituto giuridico viene ridimensionato nella sua portata volendo limitare l’applicazione a casi “debitamente giustificati e quando il cittadino di un paese terzo sta chiaramente cooperando” (art. 12 par.6) mentre scompare il riferimento all’obbligo attuale di adottare una misura coercitiva di allontanamento solamente “in ultima istanza” (art. 8 par. 4 della Direttiva) a favore di un più blando obbligo di prevedere che “le misure coercitive adottate per garantire l’allontanamento devono essere necessarie e proporzionate” (art. 12 par.4).

Si propone che la durata del divieto di reingresso passi da cinque a dieci anni (art. 10 par.6) estendibili di ulteriori cinque sulla base di “una valutazione individuale che tiene conto di tutte le circostanze pertinenti” lo si ritenga necessario, in sostanza più o meno quando si vuole. Dilatando in modo abnorme il divieto di reingresso dello straniero si vorrebbe incentivare i rimpatri; un ragionamento privo di logica perché semmai la misura da adottare sarebbe quella opposta: può essere spinto a collaborare al proprio allontanamento solo chi può ragionevolmente coltivare l’aspettativa di poter tornare accedendo ancora a percorsi legali, in circostanze diverse e in tempi ragionevoli. La proposta della Commissione rende possibile effettuare anche l’espulsione del minore straniero non accompagnato (ora sempre proibita dalla normativa interna italiana), seppure con alcune garanzie procedurali e previo accertamento che il minore “sarà restituito a un membro della sua famiglia, a un tutore designato o a strutture di accoglienza adeguate nel paese di ritorno” (art. 20 par. 3). E’ facile immaginare cosa accadrà: nel caso la legislazione interna dello Stato UE non tuteli dall’allontanamento i minori non accompagnati (l’Italia manterrà il divieto di espulsione attuale?) essi si sottrarranno ai controlli e fuggiranno dalle comunità di accoglienza popolando le strade delle città europee.

Anche se la detenzione amministrativa può essere applicata “solo per preparare il rimpatrio o eseguire l’allontanamento” (art. 29 par.1) e deve avvenire “sulla base di una valutazione individuale di ciascun caso e solo nella misura in cui il trattenimento è proporzionato” (par.2) le fattispecie che possono legittimare il trattenimento sono così estese da poter coprire quasi tutte le situazioni, e comunque la possibilità di applicare il trattenimento “per determinare o verificare la (…) identità o nazionalità” dello straniero rende questa misura (pur facoltativa) la scelta che si applicherà alla maggior parte delle situazioni. Il periodo massimo della detenzione, attualmente fissato a 18 mesi, viene ulteriormente esteso prevedendo che possa durare fino a massimo di dodici mesi, prorogabile però di altri dodici mesi (art. 33) e ulteriormente estendibile in casi di stranieri autori di alcuni reati.

L’attuale Direttiva europea prevede che “quando risulta che non esiste più alcuna prospettiva ragionevole di allontanamento per motivi di ordine giuridico o per altri motivi o che non sussistono più le condizioni di cui al paragrafo 1, il trattenimento non è più giustificato e la persona interessata è immediatamente rilasciata” (Direttiva art. 15 par.4). Questo fondamentale criterio è cassato nella nuova proposta di Regolamento; si continua a prevedere che la detenzione venga periodicamente rivista ad intervalli regolari (art. 33) ma venendo meno il criterio sopraccitato la revisione stessa diviene sterile misura burocratica. Si finisce in tal modo per alterare la natura stessa della detenzione amministrativa sempre richiamata giurisprudenza dalla Corte di Giustizia, ovvero una misura che può essere applicata solo per eseguire l’allontanamento nel minor tempo possibile, mentre ora assume in modo netto la nuova forma di una sanzione extra penale.

Il tema che più ha attirato l’attenzione politica e mediatica è tuttavia se la proposta contenga o no la possibilità di realizzare delle strutture detentive in paesi terzi dove trattenere i migranti espulsi sotto la giurisdizione di un paese UE, ovvero se legittimi o meno l’esperimento italiano in Albania. La risposta a mio avviso è no: per “allontanamento” il testo della proposta di regolamento intende l’esecuzione di una decisione di rimpatrio da parte delle autorità competenti attraverso il trasporto fisico fuori dal territorio dello Stato membro (art.4). Tale freno al muscoloso esperimento italiano è però paradossale conseguenza del fatto che Commissione propone un approccio ancor più estremo ovvero apre alla possibilità che gli Stati UE possano concludere accordi con paesi terzi che possono diventare “paesi di ritorno” (art.4 par.1) anche se non sono né paesi di origine degli espulsi né hanno alcun legame con gli stessi.

L’accordo tra il Paese UE e quello di ritorno deve prevedere le modalità di gestione degli stranieri che gli sono stati consegnati ma comunque il paese europeo di invio pone fine alla sua giurisdizione sulle persone espulse, mentre nel caso italo-albanese si verifica una delocalizzazione delle strutture di detenzione amministrativa sotto giurisdizione italiana. Salvo un generico e inconsistente obbligo di stipulare accordi solo con Paesi nei quali siano “rispettati gli standard e i principi internazionali in materia di diritti umani in conformità con il diritto internazionale, compreso il principio di non respingimento” (art. 17 par.1) il testo proposto non impone vincoli di alcun tipo al Paese terzo divenuto “di ritorno” su cosa può o non può fare con gli stranieri di cui è divenuto responsabile, come e per quanto tempo trattenerli, dove e in quali condizioni di detenzione e neppure se il rimpatrio, per così dire finale, verso il paese di origine sarà effettuato oppure se i deportati dall’Europa potranno restare nel nuovo Paese, magari disperdendosi e venendo più o meno rapidamente reimmessi nel traffico internazionale di esseri umani.

Perché mai un Paese terzo dovrebbe decidere di prendere quegli stranieri che noi non vogliamo? L’unica o principale ragione che potrebbe spingere a una decisione così assurda per il governo di qualsiasi paese è la prospettiva di un elevato guadagno. L’accordo tra il Paese europeo e il Paese terzo di ritorno si configura dunque a tutti gli effetti come una vendita di esseri umani la quale verrebbe legalizzata nel XXI secolo, solo in forme nuove rispetto al passato. Pur consapevole della cupezza del periodo storico che stiamo vivendo mai avrei pensato che simili proposte avrebbero potuto essere elaborate e presentate da un’istituzione europea. Se non siamo ancora dentro l’Unione all’ora più buia, siamo a quella che appena la precede.

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