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Costruire il nemico: Askatasuna, i No Tav, il conflitto sociale

Per polizia e magistratura ci sono, a Torino e in Val Susa, dei nemici pubblici che vanno ridotti al silenzio ed espulsi dalla scena: i centri sociali, i No Tav, il conflitto sociale. Il procedimento penale aperto da ultimo contro Askatasuna, fondato com’è sul nulla, ne è l’ennesima dimostrazione. È ora che lo capisca quel che resta della sinistra.

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In questo “cattivo presente”, con una guerra che imperversa nel cuore dell’Europa, può sembrare residuale continuare a ragionare sulla repressione giudiziaria del conflitto sociale. Eppure l’ennesimo procedimento aperto a Torino, questa volta contro gli esponenti del centro sociale Askatasuna, merita una riflessione, perché evidenza esemplarmente un cambio di passo dei dispositivi repressivi

Askatasuna costituisce, al pari di tutti i centri sociali diffusi sul territorio nazionale, una realtà complessa, frequentata da centinaia di persone, impegnata su terreni disparati, sia in senso lato culturali (autoproduzioni musicali, laboratori fotografici e artistici, dibattiti e concerti, palestra popolare ecc.) che, soprattutto, di iniziativa politica legata alle lotte sociali. È collegata all’esperienza di Askatasuna lo Spazio popolare Neruda, una casa occupata in cui vive un centinaio di famiglie, dove si organizzano corsi di italiano per cittadini stranieri, un doposcuola e varie attività ludiche e culturali per i bambini, un mini ambulatorio sanitario, una palestra popolare e così via. Dovrebbe essere evidente a tutti che ridurre la pluralità di esperienze, di progetti, di punti vista ideali, di pratiche politiche diverse a un sodalizio unico e rigidamente centralizzato costituisca una mistificazione grottesca. È invece quello che ha fatto la Polizia, con un indagine che ha prodotto centinaia di annotazioni di servizio, decine di migliaia di ore di intercettazioni ambientali e telefoniche.

Ciò che preoccupa è che la Procura torinese, di fronte all’evidente tentativo di criminalizzare un’esperienza molto più complessa da decifrare di quanto appaia dalle semplificate e ostili ricostruzione della Polizia, ha deciso di condividerle integralmente, richiedendo 16 misure della custodia cautelare in carcere, quattro arresti domiciliari e un divieto di dimora contro altrettanti presunti militanti del centro sociale, contestando il reato di associazione sovversiva, più altri 112 reati vari, che vanno dalla resistenza a pubblico ufficiale all’estorsione e al sequestro di persona. Tutto ciò nell’ambito di un procedimento che vedeva originariamente 91 indagati, da poco ridotti a 22, in sede di conclusione delle indagini preliminari, con lo stralcio degli altri 69.

Un primo stop a tale impianto accusatorio è venuto dal giudice delle indagini preliminari incaricato di vagliare le richieste della Procura, che ha escluso la sussistenza di gravi indizi di reato per i reati più gravi, tra cui quello di associazione sovversiva, il collante che tiene in piedi l’intera operazione, applicando nei confronti degli indagati due misure della custodia cautelare in carcere e due arresti domiciliari, più alcune misure dell’obbligo di presentazione periodica alla polizia giudiziaria. Inaspettatamente peraltro, con un’ordinanza depositata l’11 luglio e notificata ai difensori il giorno successivo, il Tribunale del riesame ha parzialmente accolto l’appello presentato dai pubblici ministeri, ritenendo sussistenti per sei indagati (nei cui confronti vengono applicate le misure della custodia in carcere e degli arresti domiciliari, che restano però sospese in attesa della definitiva pronuncia della Cassazione) i gravi indizi di colpevolezza in ordine al reato associativo, qualificato in semplice associazione per delinquere e non più in associazione sovversiva.

Il Tribunale non si limita solo a negare il carattere sovversivo dell’associazione ma, forse consapevole dell’inconsistenza del teorema accusatorio, introduce una differenziazione specifica (in contrasto peraltro con le migliaia di pagine riversate in atti dalla Digos e fatte proprie dalla Procura), secondo cui a costituire un’associazione per delinquere non è il centro sociale ma «un gruppo criminale dedito a compiere una serie indeterminata di delitti principalmente in Val di Susa» che si sarebbe formato all’interno di Askatasuna. Una prospettiva interpretativa, questa, che appare in contrasto con le ipotesi investigative degli inquirenti, che cerca di salvare l’insalvabile ma ne condivide il pressapochismo, la scarsa aderenza alla realtà dei fatti e, soprattutto, la scarsa conoscenza delle pratiche, dei linguaggi, perfino delle idee che caratterizzano il variegato mondo dell’antagonismo italiano.

Vista l’enorme mole degli atti e dei documenti prodotti da Procura e Digos, un’autentica alluvione di carta che tenta di compensare sul piano quantitativo la scarsa qualità indiziaria, risulta impossibile proporre anche solo un riassunto dell’impianto complessivo dell’inchiesta. Si può provare a evidenziarne le principali criticità e gli assunti di fondo.

Anzitutto, occorre segnalare come Torino, da sempre laboratorio di pratiche e innovazioni repressive, sia l’unica città italiana a vantare, secondo la Polizia, la presenza contemporanea fino a pochi mesi fa di ben due associazioni sovversive: la prima è quella legata ad Askatasuna, la seconda è quella dell’ex Asilo occupato di via Alessandria, sgomberato (e mai più rioccupato) proprio grazie a tale contestazione giuridica, poi fatta a pezzi dal Tribunale del riesame, prima, e dalla Cassazione, poi. L’operazione che la Polizia aveva in mente con Askatasuna era probabilmente la stessa: richiesta di misure cautelari per associazione sovversiva, sgombero del centro sociale e magari anche delle altre strutture ad esso collegate (come lo Spazio polare Neruda), operazione sicuramente più complessa, visto l’insediamento territoriale di Askatasuna e i suoi legami con la città.

Occorre intendersi. Qui la questione non riguarda gli spazi occupati e dunque la volontà di assecondare le pulsioni legalitarie, sempre presenti in molte forze politiche che seggono in consiglio comunale, che ne richiedono lo sgombero. Se con l’ex Asilo si trattava di radere al suolo una soggettività antagonista impegnata soprattutto sui fronti della lotta ai Cie/Cpr, agli sfratti e alle politiche di gentrificazione del quartiere Aurora, per Askatasuna la posta in gioco è ancora più alta. Anzitutto la conflittualità metropolitana, quella legata alla manifestazioni di piazza, a quelle degli studenti, alle politiche abitative cittadine. In secondo luogo, e sullo sfondo, il bersaglio più grosso: la resistenza in Val di Susa contro il Tav, resistenza che ha visto il centro sociale, per gli stretti contatti con i comitati popolari della Valle, tra i protagonisti storici di tutte le manifestazioni e le proteste. Non è un caso che 106 reati sui 112 contestati originariamente, ora ridotti a 66 su 72, riguardino episodi commessi in Valle nell’ambito della lotta No Tav.

Per raggiungere un traguardo così ambizioso le annotazioni di Polizia raccontano di un centro sociale che decide di costituirsi in associazione criminosa, unicamente votato alla commissione di reati, rigidamente centralizzato, lontana mille miglia dalla fluidità di tutti gli altri centri sociali sparsi per la penisola. La ricostruzione proposta, in cui assumono grande rilievo e centralità le intercettazioni realizzate, è una storia del conflitto sociale a Torino e in Val di Susa vista dal buco della serratura, costruita secondo uno schema cognitivo per cui le vicende umane non sono il frutto di complesse dinamiche sociali ma una sequenza di complotti, di ordini e di relative esecuzioni e il conflitto sociale non è il risultato delle scelte politiche di donne e uomini o di attori sociali collettivi, ma solo un programma delinquenziale, in questo caso sovra determinato da una struttura verticistica.

Centrali sul piano investigativo diventano gli scampoli di poche conversazioni intercettate qua e là a casa o nelle macchine di alcuni esponenti del centro sociale (una addirittura in una carrozza ferroviaria, mentre una esponente del centro sociale insieme a una nota e carismatica militante del movimento No Tav si stava recando a Bologna per un dibattito). Si tratta di conversazioni malamente e approssimativamente lette e decifrate sulla base di un’interpretazione esclusivamente letterale anche quando ci si trova di fronte a battute, risate, frasi scherzose, senza alcuna attenzione allo scambio relazionale che si instaura tra gli interlocutori, agli aspetti di condivisione affettiva, che non possono che influenzare la comprensione dei dialoghi. Al di là delle caricature più o meno folcloristiche contenute nell’annotazione finale della Digos, un monumento alla faziosità di quasi 2.000 pagine: quel che conta è che manca nell’impianto d’accusa la capacità di delineare la sussistenza dei presupposti di un’associazione criminosa.

Gli inquirenti affrontano tale complesso nodo ricostruttivo, con uno scarto di lato, a partire dal minuzioso elenco di reati commessi, soprattutto, come detto, in Val di Susa negli ultimi anni, nell’ambito della resistenza che il movimento No Tav pone in essere da decenni contro la grande opera. Si tratta di episodi in cui compaiono anche soggetti (rubricati sotto il nome di “ala oltranzista” del movimento) che nemmeno la Digos riconduce ad Askatasuna. Il che dimostra già di per sé la debolezza di un’ipotesi associativa a geometria variabile, che vede i consociati unirsi a soggetti esterni per commettere i reati ricompresi nel proprio programma criminoso. Chiunque abbia un po’ di confidenza con le categorie giuridiche contenute nel nostro codice penale sa, infatti, che l’esistenza di un’associazione deve essere dimostrata attraverso la prova di un accordo tra i consociati, di un programma criminoso aperto e permanente e di un’organizzazione specifica, non certo attraverso i cosiddetti reati scopo, cioè i reati che costituirebbero l’esplicazione delle sue capacità operative.

Per tentare di dare concretezza al proprio teorema, Digos e Procura sono costrette a trasformare in «basi e supporti materiali», la sede del centro sociale, in corso Regina Margherita 47, «l’immobile denominato dei Mulini» e il presidio di San Didero, in Val di Susa, lo Spazio popolare Neruda, il centro sociale Murazzi. Il festival dell’Alta felicità o le periodiche iniziative musicali organizzate dal centro sociale divengono, in quest’ottica, «un articolato sistema di finanziamento della vita dell’associazione» sovversiva. La ricchezza sociale e politica di spazi di movimento aperti alla città o costruiti nell’ambito della resistenza No Tav vengono così derubricati a strutture criminali, buone al più a creare profitti economici per garantire le basi materiali del sodalizio. Sul punto sembra parzialmente dissentire il Tribunale che però, per dare concretezza alla sua proposta interpretativa (un’associazione criminale nascosta dentro Askatasuna), trasforma la cassa di resistenza No Tav in uno dei pilastri della «struttura operativa del sodalizio», senza peritarsi di spiegare come il denaro raccolto da un movimento di massa, finisca poi per foraggiare le attività di un micro-gruppo delinquenziale incistato nel corpo sano di un centro sociale.

Quanto, invece, all’accordo e al programma criminosi, per colmare il vuoto sulla loro sussistenza, gli inquirenti e lo stesso Tribunale si sono risolti a utilizzare parole o frasi estrapolate dalle diverse intercettazioni. L’esempio più rilevante sarebbe costituito dalla ricorrenza in più intercettazioni o in documenti riferibili al centro sociale della parola “rivoluzione”, il che si commenta da solo. Parallelamente, per descrivere il carattere sovversivo del sodalizio si fa ricorso, negli atti depositati dalla Procura e acriticamente letti dal Tribunale, a due interviste, peraltro pubbliche, rilasciate nel 2001 e nel 2011 da due dei suoi presunti dirigenti (che contengono espressioni tipiche del dibattito della sinistra non istituzionale dagli anni Sessanta del secolo scorso in poi), oltre, inopinatamente, alla ripubblicazione nella sezione storica del sito di Infoaut (alla voce “Storia di classe”, che racconta la storia dei movimenti e del conflitto sociale nel nostro paese) di un articolo uscito sulla rivista Rosso, dell’autonomia milanese, nel 1976.

Qui l’approssimativa padronanza del lessico delle aree antagoniste del nostro paese si coniuga con la scarsa conoscenza della storia dei movimenti sociali. Sul piano giudiziario, comunque, inferire dal dibattito politico elementi sull’esistenza di un’associazione sovversiva è operazione che rischia di confondere e travolgere i confini che devono sussistere tra teoria e prassi, tra l’idea sovversiva (tutelata, come insegna la giurisprudenza di legittimità, dall’assetto democratico e pluralista del nostro ordinamento) e le condotte di rilevo penale. Questo sembra l’errore di fondo più madornale dell’inchiesta: scambiare la progettualità criminosa della presunta associazione con il suo apparato ideologico significa muoversi in una prospettiva di criminalizzazione di qualsiasi collettivo che si prefigga di mutare lo stato di cose presenti.

Esemplari da questo punto di vista e rivelatrici di una caduta ancor più culturale che giuridica sono le osservazioni contenute nell’atto d’appello della Procura, dove vengono proposte delle argomentazioni che dovrebbero chiarire in concreto come l’associazione in questione abbia un carattere sovversivo. Lo strabiliante sillogismo proposto, a proposito della partecipazione del centro sociale alle lotte valsusine è il seguente. Secondo la giurisprudenza della Cassazione va considerata eversiva qualsiasi condotta orientata al «sovvertimento dell’assetto costituzionale esistente» ovvero che «tenda a rovesciare il sistema democratico previsto dalla Costituzione nella disarticolazione delle strutture dello Stato o, ancora, nella deviazione dai principi fondamentali che lo governano». A giudizio dei pubblici ministeri, tra tali principi rientra il metodo democratico, con la conseguenza che ogni azione violenta che si contrapponga alla decisioni della maggioranza parlamentare o del governo democraticamente eletti va considerata automaticamente sovversiva sul piano giuridico.

Nel nostro caso, in particolare, la realizzazione del treno ad alta velocità, secondo la Procura, «è stata decisa dal Parlamento […] in esecuzione di Trattati Internazionali e di obblighi comunitari», le condotte violente realizzate in val di Susa contrastano con «l’esercizio da parte di chi ne è titolare del metodo democratico», vale a dire con «la prevalenza dell’opinione della maggioranza, che è espressione “nelle forme e nei limiti della Costituzione” della sovranità popolare». Non solo, i reati commessi contro il cantiere del TAV «hanno portato al risultato di ritardare per lungo tempo la realizzazione dell’opera», con conseguenti effetti diretti «sull’esecuzione di legittima decisione del Parlamento». Il paradigma proposto è assolutamente chiaro: qualsiasi forma di protesta nei confronti di legittime decisioni assunte dal Parlamento diviene sovversiva se realizzata anche in forme violente. A dar retta a tale postulato, sarebbero sovversive le proteste degli studenti contro la riforma della scuola superiore o universitaria, o dei lavoratori contro le riforme economiche e così via, se nel corso delle manifestazioni si verificassero degli scontri violenti. Il Tribunale si smarca da tale prospettazione e lo fa, però, con un’affermazione altrettanto incongrua, secondo cui tale assioma non regge non perché in contrasto con un’idea pluralista e conflittuale della democrazia, ma solo perché di fatto i lavori nel cantiere non sono «mai stati sospesi a causa delle azioni violente».

Insomma, aleggia tra le pagine dell’inchiesta un’idea mortificante della conflittualità e della partecipazione politica, che si accompagna a una visione scarsamente consapevole della storia italiana.

Sarebbe bene che quel poco di sinistra che ancora esiste a Torino e nel paese iniziasse a interrogarsi e a preoccuparsi di queste derive giudiziarie, perché non si tratta solo di Askatasuna o della repressione per via giudiziaria delle attività di un centro sociale. Le affermazioni sopra riportate rendono plasticamente conto – meglio di tante dissertazioni scientifiche e di tanti slogan sul passaggio dallo Stato sociale allo Stato penale – dei rischi di una deriva autoritaria non solo della giustizia ma, visto il ruolo preponderante nell’inchiesta dell’autorità amministrativa, incarnata nella Polizia di Stato, delle istituzioni, con il tentativo di delegittimare ed eliminare dallo scenario collettivo il conflitto e la protesta sociale .

È di questo che si tratta e allora, tanto per esser chiari, come dice una vecchia canzone, «même si vous vous en foutez, chacun de vous est concerné».

da Volere la Luna